L’impennata dell’inflazione negli Stati Uniti è diventata una delle ragioni che stanno alimentando il malcontento degli americani nei confronti dell’amministrazione Biden. Ed è alla pompa di benzina che gli effetti del carovita si fanno sentire in maniera particolarmente pesante. Anche per questo motivo, la Casa Bianca ha autorizzato in via eccezionale l’immissione sul mercato di una parte della cosiddetta “riserva petrolifera strategica”, ovvero alcune decine di milioni di barili di greggio. La speranza di Biden, anche se difficilmente realizzabile, è di indurre un abbassamento delle quotazioni del petrolio, ma anche di fare pressioni sul cartello dei produttori e sulla Russia, riuniti nel meccanismo dell’OPEC+, per convincerli ad aumentare il ritmo di estrazione e sostenere la ripresa di un’economia ancora rallentata dal persistere della pandemia.

 

Martedì, Biden ha annunciato il rilascio di 50 milioni di barili della riserva strategica americana, creata nel 1975 dopo l’embargo petrolifero dei paesi arabi degli anni precedenti. Questo serbatoio di greggio, stoccato in strutture sotterranee del Texas e della Louisiana, ammonta attualmente a poco più di 600 milioni di barili, sufficienti a coprire più di sei mesi di importazioni americane. Gli Stati Uniti hanno finora intaccato solo tre volte le loro riserve: la prima durante la guerra del Golfo del 1991, la seconda dopo l’uragano Katrina, per via dei danni provocati alle piattaforme estrattive nel Golfo del Messico, e l’ultima, prima di questa settimana, nel pieno della finta rivoluzione in Libia del 2011.

La cessione attuale avverrà sotto forma sia di vendita (18 milioni di barili) sia di “prestito” (32 milioni). In quest’ultimo caso, le raffinerie che acquisiranno il petrolio del governo si impegneranno a rifornire più avanti le riserve strategiche dello stesso numero di barili. Questa formula, assieme al fatto che il rilascio deciso da Biden sarà spalmato nell’arco di alcuni mesi, fa in modo che l’impatto della decisione risulterà tutt’al più trascurabile.

L’iniziativa USA è stata coordinata con alcuni altri paesi che, complessivamente, immetteranno anch’essi sul mercato circa 20 milioni di barili, portando il totale a 70 milioni. Per dare un’idea della portata della manovra promossa da Washington, il consumo globale giornaliero di petrolio ammonta a circa 100 milioni di barili. Gli altri paesi coinvolti sono l’India, che dovrebbe cedere 5 milioni delle proprie riserve, la Corea del Sud (3,5 milioni), il Giappone (5 milioni), il Regno Unito (1,5 milioni) e la Cina. Pechino non ha dato notizia dei quantitativi che intende mettere a disposizione, ma secondo una fonte occidentale citata da Bloomberg si tratterebbe di almeno 7 milioni di barili.

Praticamente tutti gli analisti e i “trader” del settore petrolifero sembrano essere concordi nel giudicare l’iniziativa come una mossa politica, difficilmente in grado di generare gli effetti sperati dall’amministrazione Biden. Va ricordato che il presidente americano ha valutato di procedere in questo modo dopo che vari appelli all’OPEC+, ovvero il cartello degli esportatori con sede a Vienna più la Russia, per incrementare la disponibilità di greggio sono caduti nel vuoto.

L’OPEC+ è il meccanismo che negli ultimi due anni presiede di fatto alle decisioni in ambito petrolifero a livello mondiale. Questa evoluzione, evidentemente non troppo gradita a Washington, è avvenuta dopo l’intesa sui volumi di greggio tra Russia, che non è un membro dell’OPEC, e Arabia Saudita in parallelo all’esplodere della pandemia a inizio 2020 e il crollo della domanda. In sede OPEC+ è stato deciso, non senza tensioni interne, che a partire da dicembre e per i mesi successivi i tagli alla produzione decisi in precedenza per sostenere le quotazioni di greggio saranno parzialmente superati da un aggiunta mensile di 400 mila barili di petrolio, ritenuti non sufficienti dagli Stati Uniti e da altri paesi.

L’OPEC+ si riunirà la prossima settimana verosimilmente per confermare questa strategia, anche se la scelta americana di liberare una quota delle riserve strategiche di petrolio potrebbe influire sulle decisioni che verranno prese. Il problema per la Casa Bianca è però che i paesi membri del cartello e la Russia potrebbero muoversi in direzione opposta, visto che hanno già manifestato la loro contrarierà alle manovre in atto per far salire la produzione globale di greggio, così da determinare un’inversione di rotta delle quotazioni.

Se così fosse, la mossa di Biden diventerebbe un boomerang, riducendo ancora di più la disponibilità di petrolio sul mercato e facendo salire ulteriormente i prezzi. Il governo USA ha comunque fatto sapere di avere altre armi da utilizzare in questa guerra e qualcuno ha fatto riferimento a una proposta di legge “anti-trust”, nota come “NOPEC” e da qualche tempo in fase di stallo al Congresso di Washington, che vuole prendere di mira appunto i cartelli come quello dell’organizzazione degli esportatori di petrolio.

È ad ogni modo improbabile che la situazione precipiti fino a questo punto, ma l’ipotesi dell’escalation dello scontro tra Stati Uniti e OPEC solleva la questione latente del deterioramento, per quanto relativo, dei rapporti tra Washington e Riyadh. Oltre alle implicazioni di carattere geo-politico, c’è appunto da considerare il divergere degli interessi in ambito energetico, causato, nonostante l’alleanza sia storicamente basata proprio sul greggio e i “petrodollari”, dal peso sempre più importante sul piano globale degli USA come produttori di petrolio in competizione per le quote di mercato.

Nelle circostanze attuali, non va inoltre dimenticato che per l’OPEC+ a decidere dell’eventuale aumento della produzione di petrolio, come sollecitato dalla Casa Bianca, saranno soprattutto il presidente russo Putin e l’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman (MBS). Per quanto riguarda il primo è superfluo ricordare le ragioni di scontro con gli Stati Uniti, mentre anche il reggente di fatto della casa regnante wahhabita è per molti versi in rotta di collisione con il presidente americano. Visto lo stato dei rapporti, perciò, appare difficile immaginare una decisione dell’OPEC+ che prenda interamente in considerazione le richieste della Casa Bianca.

La scommessa di Biden è dunque rischiosa, anche se fonti della sua amministrazione hanno assicurato che l’iniziativa di questa settimana avrà effetti positivi nei prossimi mesi. Su un piano più generale, comunque, lo stesso ricorso alle riserve strategiche di petrolio rappresenta un’azione intrinsecamente non in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati da Biden. Questo serbatoio di greggio serve cioè per far fronte a emergenze e non a influenzare l’andamento dei prezzi. In altri termini, come ha spiegato l’ex consigliere di George W. Bush per le questioni energetiche Robert McNally, “utilizzare le riserve strategiche per la difesa di prezzi stabiliti sul mercato globale è pura follia”.

Un’indicazione delle prospettive della decisione americana è stata offerta intanto proprio dall’andamento delle quotazioni del greggio in questi giorni. Il prezzo era sceso nell’ultimo mese in concomitanza con il prendere quota del dibattito sulla possibilità di ricorrere alle riserve strategiche USA. Una volta presa ufficialmente la decisione da parte di Biden, tuttavia, l’effetto è svanito e il barile è tornato rapidamente a salire sull’onda delle aspettative frustrate nei confronti di un provvedimento con ogni probabilità insufficiente a invertire la tendenza del mercato globale.

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