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Categoria: Esteri

A dodici mesi dallo storico accordo di governo che aveva estromesso dal potere Benjamin Netanyahu dopo 12 anni, lo stato ebraico si ritrova sull’orlo di una nuova grave crisi politica che potrebbe portare all’ennesima elezione anticipata. L’esilissima maggioranza che sostiene l’esecutivo guidato dal primo ministro Naftali Bennett sta perdendo pezzi ormai da qualche tempo e questa settimana ha incassato una sconfitta umiliante dopo la mancata approvazione in prima lettura di una legge decisiva per la sopravvivenza del sistema di apartheid imposto ai palestinesi in Cisgiordania.

 

C’è indiscutibilmente una certa ironia e soprattutto una chiara dimostrazione dello stato di avanzato degrado della “democrazia” israeliana nel fatto che un parlamento e un gabinetto dominati da elementi ultra-reazionari, nonostante la partecipazione al governo di partiti arabi e nominalmente di (centro-)sinistra, non sia ancora in grado di ratificare, com’è avvenuto senza eccezioni dal 1967, un sistema di regolamenti che legittima di fatto l’occupazione illegale dei territori palestinesi.

Ancora più evidente appare il caos politico a Tel Aviv se si considera che, da un lato, alcuni parlamentari della maggioranza, contrari di principio alla legge sull’apartheid, hanno votato a favore dopo avere ceduto alle pressioni di coloro che paventavano una caduta del governo, mentre quelli di destra all’opposizione, ideologicamente allineati ai principi delle norme in discussione, si sono invece schierati contro.

La legge in questione viene di solito approvata senza sorprese ogni cinque anni dal parlamento israeliano (Knesset). Quella che da 55 anni è una semplice formalità serve a estendere la legislazione civile di Israele ai territori occupati, perpetuando cioè un vero e proprio abominio dal punto di vista del diritto internazionale. Nei territori palestinesi della Cisgiordania vengono in altre parole implementati due sistemi legali paralleli, uno militare per i circa tre milioni di palestinesi che ci vivono e uno civile per gli oltre 500 mila coloni ebrei illegali.

Senza appunto un intervento legislativo come quello in discussione, i cui effetti scadono alla fine di giugno, gli abitanti ebrei degli insediamenti verrebbero automaticamente sottoposti anch’essi alla legge militare. Ciò provocherebbe il caos, visto che Tel Aviv non potrebbe più applicare le leggi civili, trovandosi senza i mezzi, ad esempio, per imporre le tasse o esercitare le attività di polizia. I coloni, tra cui figurano personalità di rilievo, deputati inclusi, perderebbero a loro volta i propri diritti, tra cui quello di voto, e la possibilità di ricoprire i loro incarichi, non risiedendo più, com’è peraltro nella realtà dei fatti, in territorio israeliano.

La crisi politica in atto ha dunque reso difficoltosa anche l’approvazione di una legge fondamentale per l’impalcatura del regime di apartheid su cui si basa lo stato ebraico e che trova ampio consenso in parlamento. Il governo Bennett non ha potuto nemmeno contare sull’appoggio dell’opposizione poiché il Likud di Netanyahu e gli altri partiti radicali suoi alleati stanno adottando la tattica del muro contro muro per far cadere l’esecutivo. La legge è stata così bocciata nella tarda serata di lunedì con 58 voti contrari e appena 52 a favore.

La prossima settimana potrebbe in ogni caso già tornare in aula e la Knesset ha comunque tempo fino alla fine del mese per porre rimedio allo stallo. Alcuni commentatori ritengono inoltre che il governo potrebbe ricorrere a qualche misura di emergenza in extremis per evitare le conseguenze potenzialmente disastrose della mancata approvazione. Il dato politico che è emerso dalle vicende di questi giorni è però chiarissimo e prospetta un futuro probabilmente molto breve per l’improbabile governo nato dall’accordo tra Bennet e il ministro degli Esteri, nonché leader del partito “centrista” Yesh Atid, Yair Lapid.

Già ad aprile il governo aveva perso la propria risicatissima maggioranza (61-59) in seguito alla decisione della deputata del partito di Bennett (Yamina), Idit Silman, di abbandonare la coalizione composta da otto partiti perché, a suo dire, stava mettendo a rischio la “identità ebraica”. Dopo la defezione di quest’ultima, era stata la deputata palestinese del partito di sinistra Meretz, Ghaida Rinawi-Zoabi, a dare l’addio alla maggioranza, ovviamente per ragioni opposte a quelle della Silman. Il panico scatenato nel governo aveva portato a una trattativa sfociata nella marcia indietro della Zoabi, la quale ha però votato contro la legge sull’apartheid lunedì alla Knesset.

Assieme a lei, un altro deputato della maggioranza ha espresso voto contrario, Mazen Ghanaim della Lista Araba Unita (Ra’am), il partito conservatore palestinese entrato lo scorso anno nel governo Bennett. Guardando alla sopravvivenza del governo piuttosto che ai propri principi e al popolo palestinese, gli altri deputati di Meretz hanno invece votato a favore, mentre quelli di Ra’am, ad eccezione di Ghanaim, si sono astenuti.

Con il futuro del governo in bilico, l’ipotesi elezioni anticipate è tornata a prendere piede in Israele. I sondaggi più recenti danno in netto vantaggio il Likud, a conferma che i guai giudiziari in cui è invischiato l’ex premier Netanyahu non hanno eroso in maniera significativa la sua base di consenso nel paese. In caso di voto, alcuni partiti che sostengono l’attuale esecutivo rischiano di essere fortemente ridimensionati, come Yamina di Bennett, o addirittura di non superare la soglia di sbarramento per ottenere seggi in parlamento, come “Nuova Speranza” del ministro della Giustizia Gideon Sa’ar.

Questi scenari potrebbero quindi spingere alcuni deputati e membri del governo ad accettare gli inviti di Netanyahu per la formazione di un governo alternativo di destra. I leader della coalizione, invece, starebbero cercando di trovare un modo per tenere in vita il governo almeno per qualche mese. Il quotidiano israeliano Haaretz ha descritto in un articolo pubblicato martedì le pressioni che stanno subendo i deputati “ribelli”, come i già ricordati Ghaida Rinawi-Zoabi e Mazen Ghanaim, affinché si dimettano. Così facendo, come previsto dalla legge israeliana, lascerebbero il loro seggio ai candidati che li seguivano nelle liste dei rispettivi partiti e che non sono stati eletti.

Il precipitare della situazione per il governo Bennett sembra comunque difficilmente reversibile, come dimostrano anche le dimissioni di ben quattro membri dello staff del primo ministro soltanto nell’ultimo mese. L’accordo di governo prevede che nell’agosto del 2023 la carica di premier passi da Bennett a Lapid, ma le chances che ciò accada appaiono sempre più scarse.

La scommessa dello stesso Lapid potrebbe essere dunque sul punto di crollare. Il governo formato in pratica attorno al solo desiderio di escludere Netanyahu, sperando che i processi e le difficoltà economiche avrebbero determinato la fine della sua carriera politica, si è dimostrato anche più debole di quanto già si poteva prevedere all’inizio. Le contraddizioni derivanti dalla collaborazione forzata tra palestinesi e falchi sionisti sono inevitabilmente esplose, mandando in frantumi la coalizione.

La deriva anti-democratica e criminale sempre più marcata dello stato ebraico ha in parallelo spinto ulteriormente verso destra gli equilibri politici, restringendo gli spazi già ridotti per proposte alternative (relativamente) moderate. In un quadro simile, il ritorno di Netanyahu, tramite elezioni anticipate o un cambio di maggioranza nell’attuale Knesset, è l’ipotesi più probabile, oltre che più logica, sempre che al duo Bennett-Lapid non riesca nelle prossime settimane di ricucire in qualche modo gli strappi nella coalizione di governo e quanto meno di ritardare un epilogo che, ad oggi, appare poco meno che inevitabile.