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Il presidente ucraino Zelensky ha annunciato questa settimana la sospensione del numero uno del servizio segreto domestico (SBU), Ivan Bakanov, e del procuratore generale dello Stato, Irina Venediktova, con una mossa che testimonia sia della crisi del suo regime sia dell’influenza esercitata su di esso dalle potenze occidentali, primi fra tutti gli Stati Uniti. Dietro al provvedimento ci sarebbe la massiccia infiltrazione di “spie” russe, tanto che, secondo lo stesso ex comico televisivo, sono già 651 i procedimenti d’indagine aperti per “tradimento e collaborazionismo”.

 

Il licenziamento di Bakanov è particolarmente significativo in quanto quest’ultimo è molto vicino alla persona del presidente. Amico d’infanzia di Zelensky, Bakanov aveva ricoperto anche l’incarico di consigliere dello stesso presidente ed era stato il segretario del suo partito (“Servitore del Popolo”). Non avendo precedenti esperienze di intelligence, Bakanov era stato selezionato per cercare di esercitare un qualche controllo “esterno” sugli elementi di estrema destra che affollano la SBU, nel quadro del programma di governo originario di Zelensky che prevedeva la risoluzione diplomatica della questione del Donbass.

Attorno alle ragioni e ai retroscena della doppia sospensione voluta da Zelensky si è discusso molto sulla stampa internazionale. È probabile che la CIA, i cui uomini hanno una profonda influenza sulle attività belliche e di intelligence del regime di Kiev, abbia spinto per una purga degli elementi meno affidabili, ovvero di coloro che non appoggiano in pieno né la criminalizzazione della Russia né la resistenza all’avanzata di Mosca alla luce della situazione quasi disperata per le forze ucraine. Al di là della retorica dell’unità e della compattezza nel combattere l’aggressione russa, questi ultimi sviluppi confermano come anche all’interno degli organi di potere ucraini ci siano ampi settori che vedono con crescente allarme lo scontro con Mosca e la deriva del regime di Zelensky.

È anche certo che i servizi segreti russi siano infiltrati nella SBU, dove hanno con ogni probabilità trovato terreno fertile per varie ragioni, non da ultima la corruzione che notoriamente caratterizza questo organo dello stato ucraino. Al posto di Bakanov è stato nominato il suo vice, Vasily Malyuk, che, a differenza del suo ormai ex superiore, ha trascorso tutta la sua carriera nell’intelligence e dovrebbe perciò avere maggiori capacità di controllo sull’agenzia. La notizia del cambio al vertice della SBU potrebbe generare ulteriore caos al suo interno, visto che la caccia alle streghe contro soggetti ritenuti non sufficientemente anti-russi finirà per intensificarsi. L’ammissione della presenza di “traditori” in numero così elevato nei ranghi della SBU rischia inoltre di screditare ancora di più i servizi ucraini, già associati, assieme all’ufficio del procuratore generale dello stato, ad alcune delle più odiose attività del regime di Zelensky.

Una di queste è la feroce repressione di qualsiasi forma di dissenso nei confronti dell’isteria anti-russa, diventata da tempo una sorta di dogma di stato. Gli uomini della SBU sono in prima linea nella campagna di arresti, torture e assassinii diretta contro gli oppositori del regime e chiunque intenda criticare la conduzione della guerra da parte di Zelensky. La SBU è anche il terminale delle forniture di armamenti occidentali. Le dichiarazioni allarmate provenienti da Europa e Stati Uniti nelle ultime settimane, circa la sparizione di armi destinate alla guerra contro la Russia, riguardano in larga misura proprio la SBU e la possibile facilitazione del trasferimento di equipaggiamenti militari a organizzazioni criminali da parte di elementi interni all’agenzia di intelligence ucraina.

Non sarà ad ogni modo semplice rispondere alle richieste occidentali di “riforma” della SBU. Quest’ultima è un’organizzazione capillare che conta circa 35 mila dipendenti, più o meno come l’FBI americano nonostante una popolazione di appena 40 milioni di abitanti. Come minimo, il terremoto provocato da Zelensky con la liquidazione del numero uno della SBU porterà altra confusione sul fronte di guerra, nonché il venir meno di importanti risorse in uno scenario complessivo già segnato da perdite pesantissime.

I missili di Washington

In questa fase del conflitto si stanno osservando ripetuti lanci di missili dal territorio ancora controllato dal regime ucraino verso obiettivi civili nelle due repubbliche del Donbass e dentro gli stessi confini russi. L’escalation di Kiev dipende dalla disponibilità dei sistemi di lancio multiplo “HIMARS” forniti recentemente dal governo americano. Queste armi dovevano servire a contrastare l’offensiva di Mosca ma sono invece puntate di fatto contro la popolazione civile.

L’amministrazione Biden aveva deciso di dotare gli “HIMARS” destinati all’Ucraina con sistemi di lancio in grado di raggiungere una distanza di appena 80 chilometri, in modo da evitare l’utilizzo contro bersagli in territorio russo. Ciò doveva limitare il rischio di provocazioni che avrebbero potuto essere considerate da Mosca come un intervento diretto di Washington nel conflitto. La realtà alla fine non è stata molto diversa e, infatti, il ministro della Difesa russo, Sergey Shoigu, ha ordinato un’intensificazione dei bombardamenti proprio per cercare di distruggere gli “HIMARS” offerti dal governo USA.

Uno dei rischi è che queste operazioni russe possano colpire personale militare americano che si trova quasi certamente sul campo in Ucraina per garantire assistenza nel manovrare i sistemi di lancio “HIMARS”. In linea generale, la questione conferma come l’insistenza occidentale nel trasferire armi a Kiev non faccia che inasprire la guerra, con il conseguente aumento delle vittime civili, senza creare le condizioni per un ribaltamento degli equilibri sul campo da parte delle forze ucraine.

Per il dipartimento di Stato, oltretutto, l’uso degli “HIMARS” sarebbe legittimo anche se diretto contro la Crimea, annessa dalla Russia dopo il referendum del 2014, perché la penisola viene considerata da Washington come parte dell’Ucraina. L’ex primo ministro russo e attuale vice-presidente del Consiglio di Sicurezza, Dmtry Medvedev, ha a questo proposito avvertito che eventuali attacchi contro la Crimea porterebbero alla “apocalisse” per la leadership ucraina. Il fatto che Kiev e i paesi NATO non riconoscano che la Crimea è territorio russo, ha aggiunto Medvedev, rappresenta per il suo paese una “minaccia sistemica”.

Diplomazia e illusioni

Una soluzione diplomatica del conflitto in corso sembra essere ancora molto lontana, soprattutto a causa della prospettiva distorta del regime ucraino e dei suoi sostenitori in Occidente. Un’altra prova è stata la dichiarazione rilasciata a Forbes qualche giorno fa dal ministro della Difesa ucraino, Dmytro Kuleba. Secondo il capo della diplomazia di Kiev, sarà possibile sedersi al tavolo delle trattative solo dopo che la Russia sarà sconfitta sul campo. Il suo pensiero è anche quello di Zelensky, il quale “non esclude la possibilità di negoziati”, ma al momento “non ci sono motivi” per discutere.

La linea di Kiev in merito all’eventuale fine della guerra è dettata in ogni caso da Washington e non si intravede per ora una via d’uscita che risparmi ulteriori sofferenze e distruzione all’Ucraina e che permetta alla NATO di presentare la sconfitta come una vittoria strategica contro Mosca. Il problema per l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’Europa è che il prolungamento della guerra produce più danni per loro che per la Russia. Se si esclude un’escalation che porti a uno scontro diretto tra Russia e NATO, Mosca non può che raccogliere ulteriori benefici dal prolungamento delle operazioni, dal controllo del territorio in Ucraina all’indebolimento militare dei propri rivali, dall’aggravarsi della crisi economica auto-inflitta in Occidente all’aumento del costo di gas e petrolio.

La turbina di Gazprom e la forza maggiore

Fonti anonime citate martedì dalla Reuters hanno confermato che il 21 luglio Gazprom ristabilirà i flussi di gas verso la Germania attraverso il gasdotto Nord Stream 1. L’impianto era stato fermato il giorno 11 di questo mese per manutenzione. C’erano seri timori a Berlino e nel resto dell’Europa per la possibilità che Mosca fermasse a tempo indeterminato le forniture di gas, anche perché le tensioni erano salite in seguito alla polemica scoppiata attorno alla riparazione in Canada da parte di Siemens di una turbina necessaria a pompare gas verso occidente.

I governi coinvolti hanno dovuto alla fine violare le loro stesse sanzioni e dare il via libera alla riconsegna della turbina per evitare che la carenza di gas peggiorasse. Mosca sembra avere voluto dare da parte sua un segnale di affidabilità all’Europa con l’impegno a riaprire i rubinetti nei tempi stabiliti, ma una decisione di Gazprom resa nota lunedì fa pensare che la Russia voglia tenersi più di una carta a disposizione. Il gigante del gas russo aveva indirizzato in data 14 luglio una lettera alla Germania nella quale citava cause di “forza maggiore” per giustificare l’eventuale cessazione delle forniture di gas.

Questa formula permetterebbe in teoria a Gazprom di sciogliere i propri impegni contrattuali senza incorrere nelle conseguenze previste. Per Bloomberg News la lettera che cita le cause di forza maggiore sarebbe stata recapitata a tre acquirenti, ma non ci sono notizie sull’identità degli altri due. La probabile riapertura a pieno regime del Nord Stream 1 dovrebbe in teoria attenuare questo rischio, ma gli sviluppi delle prossime settimane saranno tutte da verificare.

La grana Erdogan

Sul fronte dell’allargamento della NATO, infine, l’entusiasmo ostentato nel summit di fine giugno a Madrid per il via libera all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza potrebbe risultare prematuro. Alla vigilia della partenza per il vertice di Teheran con Putin e il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, Erdogan ha infatti spiegato ai giornalisti di essere pronto a “congelare il processo” di adesione dei due paesi scandinavi se i loro governi “non prenderanno i provvedimenti necessari per soddisfare le richieste” di Ankara. L’accordo raggiunto nella capitale spagnola sembrava aver messo da parte definitivamente l’opposizione turca, ma le condizioni imposte da Erdogan sono state in seguito ribadite più volte. La Turchia vuole, tra l’altro, l’estradizione di alcuni “terroristi” curdi che vivono in Finlandia e in Svezia, nonché la fine dell’appoggio al PKK e dell’embargo alla vendita di armi.

Da considerare ci sono anche le richieste che Erdogan ha senza dubbio rivolto all’amministrazione Biden in cambio dell’ammorbidimento delle sue posizioni su Helsinki e Stoccolma. Non è del tutto chiaro in cosa consistano, ma è possibile si tratti della riammissione nel programma dei jet F-35, da cui la Turchia era stata esclusa dopo l’acquisto del sistema anti-aereo russo S-400, o la possibilità di ottenere dagli USA un certo numero di F-16. Fino a che Erdogan non raggiungerà i propri obiettivi, è improbabile che acconsentirà a togliere il veto di fatto imposto a un processo di allargamento della NATO che, di per sé, per la Turchia non porterà nessun beneficio concreto.