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Le operazioni di voto nelle quattro regioni ucraine sotto il controllo totale o parziale della Russia stanno giungendo a termine con i risultati parziali che indicano il prevedibile netto successo del ricongiungimento con la Federazione Russa. A differenza di quanto sostiene la propaganda occidentale, la soluzione del referendum è l’esito inevitabile di una gestione della crisi ucraina, da parte di Kiev, Washington e Bruxelles, che va fatta risalire al golpe neonazista del 2014 e che ha avuto come obiettivo non la risoluzione pacifica del conflitto, ma l’accerchiamento della Russia e l’intensificazione delle pressioni sul Cremlino.

La settimana appena iniziata promette cambiamenti dalle implicazioni geo-strategiche eccezionali che costringeranno i governi occidentali e, soprattutto, europei a scelte cruciali per i futuri equilibri transatlantici ed euro-asiatici. I seggi negli “oblast” di Donestk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia chiuderanno martedì 27 e subito dopo i due rami del parlamento russo ratificheranno la richiesta di annessione alla Federazione. Secondo fonti parlamentari russe, citate dall’agenzia Tass, già nella giornata di venerdì il presidente Putin potrebbe mettere la sua firma su un provvedimento che aggiungerà alla Russia oltre 100 mila chilometri quadrati di territorio e più di cinque milioni di abitanti.

 

Questa nuova realtà con cui ciò che resta dell’Ucraina e i suoi sponsor occidentali dovranno fare necessariamente i conti si accompagna alla mobilitazione parziale delle forze armate russe, annunciata settimana scorsa dallo stesso Putin. L’evoluzione della “operazione militare speciale”, lanciata il 24 febbraio scorso, in guerra vera e propria avrà principalmente lo scopo di consolidare la difesa dei quattro nuovi territori. Un attacco contro uno di questi ultimi rappresenterà così un attacco contro il territorio russo, con tutte le conseguenze del caso, di cui il Cremlino ha esaustivamente avvertito il regime di Zelensky e i governi occidentali.

I drammatici eventi che si sono succeduti nei giorni scorsi prospettano un’aggiunta di circa 300 mila uomini alle forze russe e del Donbass impegnate in battaglia e una campagna di bombardamenti ancora più massiccia contro obiettivi ucraini spesso risparmiati nei primi sette mesi di guerra, come le infrastrutture strategiche civili e i centri di comando militari, dove è con ogni probabilità presente un numero imprecisato di ufficiali NATO.

L’escalation russa minaccia di essere ancora più devastante se, come già spiegato, dovessero proseguire i bombardamenti ucraini con armi occidentali contro i territori delle quattro regioni che stanno per riunirsi alla Federazione Russa. Il rischio serissimo di un aggravamento del conflitto tra Mosca e la NATO, facilmente prevedibile se quest’ultima eventualità dovesse verificarsi, deriva principalmente dalla convinzione prevalente a Washington e a Bruxelles che la mossa di Putin sia stata dettata dalla posizione interna presumibilmente sempre più debole del presidente russo.

In base a questo assunto, l’Occidente ritiene che non sia il momento di fare un passo indietro ed esplorare la via della diplomazia per scongiurare un conflitto anche nucleare, ma piuttosto di intensificare le pressioni per convincere un Putin disperato a ritirare le proprie forze di occupazione da tutto il territorio ucraino. Se ci sono evidentemente divisioni all’interno della classe dirigente europea sull’opportunità di proseguire sul sentiero suicida delle (auto-)sanzioni e del trasferimento di armi al regime di Zelensky, a Washington continua a prevalere la volontà del confronto con Mosca, col risultato di mancare l’opportunità che le stesse recenti decisioni di Putin sembrano avere offerto per intavolare una qualche forma di negoziato.

L’allargamento di fatto dell’ombrella protettiva russa alle quattro regioni che stanno votando in questi giorni per unirsi alla Federazione rappresenta in altre parole una manovra che dovrebbe consentire a Kiev e all’Occidente di ripensare alle conseguenze di un’intensificazione del conflitto, in particolare per un’Europa che si sta preparando a un inverno difficilissimo dal punto di vista economico ed energetico.

I segnali arrivati finora non sono tuttavia incoraggianti, quanto meno sul fronte della retorica. Politici e media ufficiali continuano a condannare i referendum in corso senza tenere in minima considerazione i fattori storici e le circostanze più recenti che hanno portato agli sviluppi di questi giorni. La versione proposta dall’Occidente disegna una situazione in larga misura immaginaria fatta di una brutale occupazione russa di territori i cui abitanti anelerebbero invece tornare sotto il controllo del governo “democratico” di Kiev.

I votanti nel referendum-farsa sarebbero così costretti dai militari russi a recarsi ai seggi per votare l’annessione alla Federazione, in modo da ratificare una realtà imposta appunto dal Cremlino per via delle aspirazioni imperiali del suo occupante. Questo scenario è d’altra parte coerente con il racconto superficiale e di parte offerto dai media “mainstream” fin dal 2014 e in maniera ancora più accentuata dopo l’inizio delle operazioni militari a fine febbraio.

L’affluenza per i referendum sul ricongiungimento con la Russia a Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia sta avvenendo invece spontaneamente, come confermano anche numerosi osservatori occidentali, e in linea con le aspirazioni di popolazioni filo-russe che hanno accolto le forze di Mosca come liberatori dal giogo di un regime infestato di neo-nazisti. Gli abitanti di queste regioni stanno anzi esprimendo il loro voto sfidando la minaccia delle bombe ucraine e le potenziali rappresaglie di un’eventuale ritorno di queste terre sotto il controllo del regime di Kiev.

A partire dall’indipendenza dell’Ucraina, gli “oblast” orientali hanno ovviamente sempre manifestato inclinazioni filo-russe, favorendo candidati e partiti che proponevano politiche di integrazione e collaborazione con Mosca. Così è stato anche dopo il colpo di stato promosso dall’Occidente nel 2014. Lo stesso Zelensky era stato eletto a valanga grazie a un’agenda incentrata sulla risoluzione pacifica del conflitto nel Donbass, in primo luogo con l’implementazione degli accordi di Minsk.

Zelensky avrebbe però ben presto cambiato rotta sotto la spinta degli ambienti più radicali interni e dei sostenitori occidentali dell’Ucraina, intenzionati a fare di questo paese un’arma per mettere la Russia con le spalle al muro. A ciò va aggiunto il vero e proprio tentativo di genocidio perpetrato dal 2014 nei confronti delle popolazioni filorusse del Donbass, costato qualcosa come 14 mila vittime civili tra l’indifferenza di Stati Uniti ed Europa. L’annessione alla Russia di questi territori è dunque un’aspirazione ampiamente diffusa e legittima tra le rispettive popolazioni e, a differenza di quanto sostiene la propaganda occidentale a proposito delle mire del Cremlino, per lungo tempo respinta dallo stesso Putin.

Fino a pochi mesi fa, il governo russo aveva lavorato a un accordo diplomatico con Kiev e l’Occidente, lasciando la porta aperta a un ripensamento delle politiche di muro contro muro ordinate da Washington per le proprie esigenze strategiche. In quest’ottica, l’indipendenza delle auto-proclamate repubbliche del Donbass o la loro integrazione nella Federazione Russa erano soluzioni che Mosca riteneva troppo provocatorie e preferiva quindi evitare o tutt’al più rimandare. Va ricordato inoltre che l’eventuale ratifica degli accordi di Minsk avrebbe consentito all’Ucraina di conservare i territori del Donbass, sia pure all’interno di una struttura federativa e con la garanzia di un certo livello di autonomia. La scelta deliberata fatta da Kiev, Washington e Bruxelles è stata invece di segno opposto, col risultato di spingere la crisi verso il punto di non ritorno e un epilogo pressoché inevitabile.

Davanti alla minaccia dell’intera NATO, la Russia si è ritrovata con l’unica opzione possibile per far fronte a una minaccia niente meno che esistenziale: mobilitazione (parziale) delle forze armate e integrazione nel proprio territorio delle regioni ucraine a maggioranza russofona. La decisione di Putin deve essere stata valutata con estrema attenzione e, quasi certamente, coordinata con i partner della Russia all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).

Quest’ultimo fattore, anche se quasi del tutto trascurato dai media ufficiali in Occidente, ha un’importanza cruciale, soprattutto nella prospettiva più ampia delle dinamiche multipolari in atto a livello globale che si intrecciano con la guerra in Ucraina. Nel recente vertice del SCO a Samarcanda, in Uzbekistan, dietro le quinte la crisi ucraina è stata al centro delle discussioni. È molto probabile che Putin abbia ottenuto rassicurazioni principalmente dal presidente cinese, Xi Jinping, sulla gestione del conflitto, tenendo presente la possibile collaborazione reciproca sul fronte Taiwan, oggetto delle continue provocazioni americane.

Resta il fatto che l’accelerazione di Mosca sul referendum e l’annessione dei quattro “oblast” ucraini non cambia di una virgola la posizione internazionale della Russia, “isolata” solo nelle fantasie di un Occidente sempre più allo sbando. In un’analisi pubblicata dal sito Strategic-Culture.org, Pepe Escobar ha riassunto efficacemente gli sviluppi degli ultimi giorni: “Il vertice SCO di Samarcanda e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno dimostrato ampiamente come virtualmente tutto il ‘Sud Globale’ al di fuori della NATO non intende demonizzare la Russia”, ma “comprende la posizione di Mosca e, addirittura, trae profitto da essa, come la Cina e l’India che acquistano grandi quantità di gas pagandolo in rubli”.

Messa di fronte al rilancio di Putin, l’Europa dovrà scegliere in fretta se abbandonare l’insensata politica delle sanzioni e delle armi, per abbracciare le occasioni di sviluppo che si aprono a Oriente, o continuare sulla strada dell’auto-distruzione economica e militare per assecondare, dietro la logora retorica della “democrazia” e dei “diritti umani”, quello che resta delle velleità egemoniche dell’impero.