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Categoria: Esteri

L’imposizione praticamente indiscriminata di sanzioni è ormai il tratto distintivo della strategia degli Stati Uniti per colpire i paesi rivali e cercare di arrestare il proprio declino internazionale. Dopo il sostanziale fallimento dell’offensiva contro la Russia, Washington si prepara ora a colpire con questa arma anche la Cina, cercando di ottenere appoggio tra gli alleati più fedeli. A riportare la notizia è stata questa settimana l’agenzia di stampa Reuters con un tempismo pressoché perfetto per farla coincidere con il rilancio delle tesi cospirazioniste sull’origine del COVID-19 e la nuova escalation delle tensioni attorno all’isola di Taiwan.

“Consultazioni” sarebbero appunto iniziate con i partner del G-7 per concordare una serie di misure economiche punitive contro Pechino. L’iniziativa si collega direttamente alla recente presentazione da parte della Cina di una proposta di negoziato per risolvere diplomaticamente la guerra in Ucraina. Il documento in dodici punti redatto dal governo cinese è stato di fatto respinto da Stati Uniti e NATO perché troppo sbilanciato a favore della Russia. Scrupolo assoluto dell’amministrazione Biden è di impedire che il “mostro” cinese possa essere protagonista di un’iniziativa di pace in Ucraina, assecondando il desiderio anche dell’opinione pubblica occidentale.

 

La liquidazione sommaria del piano di Pechino si è accompagnata ad altre azioni per screditare la leadership cinese. Prima fra tutte la denuncia pubblica delle intenzioni cinesi di fornire armi a Mosca. La campagna è come al solito coordinata tra il governo americano e i suoi burattini in Europa. Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha infatti rivelato in un’intervista alla Associated Press l’esistenza di “segnali” dei propositi cinesi di inviare materiale bellico alla Russia. Prevedibilmente, di ciò non è stato presentato nemmeno un indizio. Martedì, il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, ha di conseguenza minacciato con possibili sanzioni la Cina e le aziende cinesi presumibilmente coinvolte.

Le accuse e le minacce degli Stati Uniti sono state respinte con insolita durezza da parte cinese, a testimonianza di un cambiamento di attitudine in atto a Pechino, dove si sta esaurendo in fretta la pazienza nei confronti di un paese semplicemente non in grado di gestire in maniera razionale un rapporto sempre più complicato. Il comunicato del ministero degli Esteri cinese merita di essere citato almeno in parte per il livello di irritazione che esprime nei confronti di Washington: “Gli Stati Uniti non hanno nessun diritto di interferire nelle relazioni sino-russe. Non accetteremo mai intimidazioni né pressioni da parte americana”. La stessa portavoce del ministero ha poi rispedito al mittente le accuse, spiegando che sono proprio gli USA, “e non la Cina, a riversare armi sul campo di battaglia ucraino” e, quindi, ad alimentare il sanguinoso conflitto.

L’altra linea d’attacco è, come già ricordato, la presunta origine in laboratorio del virus COVID-19. Lo scorso fine settimana, un articolo del Wall Street Journal aveva rispolverato le accuse. Uno dei due autori del pezzo di propaganda è l’ultra-screditato Michael R. Gordon, due decenni fa tra i giornalisti che avevano promosso sulla stampa americana la menzogna delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. Sempre senza citare una sola prova e in base soltanto a quanto “rivelato” dai soliti anonimi funzionari del governo USA, il Journal ha parlato di un rapporto del dipartimento dell’Energia americano che sembra appoggiare la teoria della fuga del virus da un laboratorio di Wuhan, in Cina.

La pubblicazione della notizia è servita da input agli stenografi dei media “mainstream”, che hanno amplificato le denunce in rapida successione. Solo in rarissime occasioni la teoria del complotto è stata trattata con una qualche cautela. Il New York Times, ad esempio, ha scritto della “scarsa fiducia” dell’intelligence americana nella versione del laboratorio. Nel complesso, tuttavia, l’offensiva mediatica ha raggiunto l’obiettivo di alimentare l’avversione dell’opinione pubblica nei confronti della Cina.

Martedì, poi, è stato addirittura il direttore dell’FBI a sparare su Pechino. In un’apparizione su Fox News, Christopher Wray ha affermato che, secondo il “Bureau”, il virus  è “molto probabilmente” uscito accidentalmente dal laboratorio di Wuhan. Wray ha anche precisato che quest’ultima è una “struttura controllata dal governo cinese”, per poi aggiungere che il virus “ha ucciso milioni di americani” e questo era “precisamente lo scopo per cui era stato progettato”.

L’uscita del numero uno dell’FBI, i cui compiti non rientrano peraltro nell’ambito della ricerca medica, è stata probabilmente coordinata con le prime udienze della nuova speciale commissione della Camera del Congresso di Washington dedicata alla “Competizione Strategica tra gli Stati Uniti e il Partito Comunista Cinese”. In uno spirito bipartisan, i deputati membri hanno ascoltato alcuni tra i più feroci “falchi” anti-cinesi dell’apparato di potere americano, come l’ex consigliere di Trump, Matthew Pottinger, uno dei principali sostenitori della tesi del laboratorio di Wuhan nella precedente amministrazione repubblicana.

Per dare l’idea del clima che si respira a Washington, il presidente della commissione, il repubblicano Mike Gallagher, ha definito il conflitto tra USA e Cina come una “battaglia esistenziale attorno ai modi di vita nel 21esimo secolo”. In precedenza, nel corso di un’intervista alla CBS, Gallagher aveva citato l’episodio del pallone “spia” abbattuto recentemente dai militari americani per avvertire che la minaccia cinese non riguarda “solo qualche oscura rivendicazione territoriale nel Mar Cinese Orientale”, ma si tratta di un “problema [che avvertiamo] qui a casa nostra”.

Sempre a livello a legislativo, nella stessa giornata di martedì la commissione Finanze della Camera ha approvato una valanga di proposte di legge che contengono sanzioni dirette contro la Cina. L’accordo tra democratici e repubblicani è stato anche in questo caso quasi totale e ciò rende probabile un prossimo voto in aula, così come l’approvazione del Senato e la firma del presidente Biden. Le misure in discussione vanno dalle sanzioni finanziarie contro esponenti del governo cinese al divieto imposto ai diplomatici cinesi di partecipare a riunioni di determinati organismi internazionali, fino alle pressioni sul Fondo Monetario (FMI) per impedire l’aumento della quota della valuta cinese nei cosiddetti “diritti speciali di prelievo”.

La nuova ondata della campagna anti-cinese degli Stati Uniti è motivata in buona parte dal consolidarsi della partnership a tutto tondo tra Mosca e Pechino. Una delle speranze dell’amministrazione Biden nel provocare la guerra in Ucraina era con ogni probabilità lo sganciamento della Cina da una Russia che avrebbe dovuto essere messa in ginocchio dalle sanzioni e isolata a livello internazionale. Il conflitto ha avuto invece l’esito contrario e proprio in queste settimane si sta assistendo a un approfondimento delle relazioni bilaterali. Settimana scorsa, il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, è stato protagonista di una visita dai toni cordialissimi in Russia, verosimilmente per aprire la strada al vertice tra Putin e Xi Jinping che dovrebbe tenersi a Mosca nel mese di marzo.

L’offensiva anti-cinese in atto non poteva trascurare la questione di Taiwan, a tutti gli effetti il fronte più caldo del confronto tra Cina e Stati Uniti. La demolizione di fatto della politica di “una sola Cina”, a cui Washington continua formalmente ad aderire, è una realtà assodata e rappresenta l’elemento maggiormente in grado di far scatenare una guerra devastante in Estremo Oriente. La notizia di qualche giorno fa è che gli Stati Uniti stanno pianificando un aumento molto consistente del personale militare di stanza sull’isola che Pechino considera parte integrante del proprio territorio.

Ufficialmente ci sono oggi una quarantina di soldati americani a Taiwan e l’intenzione della Casa Bianca sarebbe quella di aumentarli a 100 o 200 nei prossimi mesi. Il numero è apparentemente trascurabile, ma è il valore simbolico della presenza militare USA a rappresentare un fattore di per sé destabilizzante. Inoltre, la decisione si inserisce in una lunga serie di altre provocazioni riguardo a Taiwan e, in ogni caso, prospetta chiaramente un’ulteriore futura intensificazione della partnership militare tra Washington e Taipei.