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Le pressioni occidentali attraverso le proteste violente dell’opposizione georgiana hanno alla fine convinto il governo di Tbilisi e la maggioranza parlamentare del paese caucasico a ritirare il discusso disegno di legge sulla “registrazione degli agenti stranieri”. La notizia è stata annunciata giovedì dopo che nei due giorni precedenti si era scatenato il caos nella capitale dell’ex repubblica sovietica, incluso un tentativo di assalto all’edificio che ospita il Parlamento. Il ritiro della proposta potrebbe essere solo momentaneo, ma rappresenta comunque una sconfitta per il partito di governo “Sogno Georgiano”, i cui sforzi per evitare il coinvolgimento del paese nel conflitto tra Russia e Ucraina (NATO) sono sempre più sotto attacco delle forze politiche filo-occidentali.

 

La rapida radicalizzazione delle manifestazioni di piazza era apparsa evidente dal lancio di bombe Molotov, pietre e fuochi d’artificio contro le forze dell’ordine. La risposta di queste ultime è stata di conseguenza molto dura, tanto che, secondo i dati forniti dalla polizia georgiana, più di 130 persone sono finite agli arresti. Gli oppositori del governo avevano alzato il livello dello scontro dopo l’approvazione in prima lettura della legge in questione nella giornata di martedì. La maggioranza aveva deciso di anticipare di due giorni il voto preliminare in aula proprio per cercare di prevenire l’allargarsi del fronte delle proteste.

La bozza di legge appena ritirata ha rappresentato per lo più un pretesto per l’offensiva contro il governo del primo ministro Irakli Garibashvili. Se ci possono essere evidentemente scrupoli democratici più o meno spontanei nella mobilitazione di questi giorni, quello recitato a Tbilisi è in larga misura il consueto copione delle “rivoluzioni colorate” promosse dall’Occidente, peraltro già sperimentato in Georgia nel 2003.

Come accennato all’inizio, il governo georgiano è esposto da mesi alle pressioni di Stati Uniti, NATO e Unione Europa affinché abbandoni l’atteggiamento neutrale nei confronti della guerra in Ucraina e si adegui alla campagna anti-russa, applicando le sanzioni imposte a Mosca. Il governo di Tbilisi ritiene legittimamente rischiosa una decisione in questo senso, soprattutto alla luce della guerra rovinosa del 2008 in Abkhazia e Ossezia del Sud, anche in quell’occasione provocata da Washington. L’Occidente, al contrario, sembra puntare invece proprio all’apertura di un nuovo fronte bellico che coinvolga la Russia.

L’insistenza di Washington e Bruxelles sulla Georgia è dovuta anche al fatto che questo paese ha tenuto negli ultimi due decenni un’attitudine spiccatamente filo-occidentale. Anche l’attuale partito di governo non può essere definito in nessun modo filo-russo, ma è attestato piuttosto su posizioni più moderate rispetto all’opposizione, anche per via degli interessi economici riconducibili a Mosca del suo fondatore, il miliardario Bidzina Ivanishvili. Questa prudenza contrasta con il totale allineamento all’Occidente del principale partito di opposizione, il Movimento Nazionale Unito fondato dall’ultra-corrotto Mikhail Saakashvili, già presidente tra il 2004 e il 2013 e ora ospite di un carcere georgiano.

Per comprendere la natura delle proteste di questi giorni è stato sufficiente osservare, oltre agli episodi di violenza, l’apparire di numerose bandiere dell’Europa e dell’Ucraina tra i dimostranti. Manifestazioni che, peraltro, l’opposizione ha deciso di continuare nonostante il ritiro della legge sugli “agenti stranieri”. Le ragioni di ciò sarebbero l’incertezza sul futuro del provvedimento, per ora solo formalmente sospeso, e la richiesta non soddisfatta di rilasciare tutti coloro che sono finiti agli arresti nei giorni scorsi.

La legge al centro della disputa è stata accostata strumentalmente dalla stampa ufficiale in Occidente a un provvedimento per certi versi simile introdotto nel 2012 in Russia. Più correttamente, in Georgia erano in discussione due proposte distinte ma sempre relative alle operazioni nel paese di individui ed enti sostenuti e finanziati da soggetti stranieri. La differenza principale tra le due bozze consiste nel grado di severità previsto per perseguire i destinatari della legge. La versione approvata martedì in prima lettura dal parlamento di Tbilisi è quella più “morbida”. Il punto centrale è l’obbligo di registrazione come “agente straniero” per tutte le organizzazioni, incluse ONG e testate giornalistiche, che ottengono più del 20% delle loro entrate da soggetti esteri.

In Occidente si è così abbattuta un’ondata di sdegno sul governo e sulla maggioranza parlamentare della Georgia. L’eventuale adozione della nuova legge, ha spiegato ad esempio il numero uno della diplomazia UE Josep Borrell, sarebbe contro i principi democratici europei. Quello che ciò comporterebbe lo ha chiarito ad esempio il parlamentare europeo per la Romania e vice-presidente del Partito Popolare Europeo (PPE), Siegfried Muresan, secondo il quale si potrebbe prospettare “il rischio del venir meno dell’appoggio europeo” a Tbilisi.

Le prese di posizione europee sono evidentemente al limite del ridicolo, ma è la reazione americana a sconfinare nell’assurdo. Il dipartimento di Stato aveva addirittura minacciato sanzioni contro la Georgia se la legge fosse entrata in vigore. Washington avrebbe cioè valutato l’imposizione di misure punitive contro un paese che adotta una legge simile a una in vigore da quasi novant’anni proprio negli Stati Uniti. Anzi, almeno secondo alcuni, addirittura meno severa. La proposta in discussione in Georgia è infatti accostabile al cosiddetto American Foreign Agents Registration Act (FARA) del 1938. Questa legge impone appunto a coloro che di fatto svolgono attività di “lobbying” per soggetti esteri di registrarsi come “agenti stranieri”.

È del tutto legittimo ipotizzare che il governo georgiano avrebbe potuto fare un uso politico della nuova legge, ma anche gli Stati Uniti e, indubbiamente la Russia, agiscono in questo modo. Nel caso di Mosca e Tbilisi, tuttavia, le attività destabilizzanti di ONG, media e altre organizzazioni dirette o finanziate dall’estero sono reali e ben documentate. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, esempi dell’utilizzo politico e arbitrario del FARA sono l’obbligo di registrazione imposto nel 2017 alla russa RT America e, l’anno successivo, alla cinese China Global Television Network.

La realtà dei fatti non ha dunque impedito lo scatenarsi di una campagna mediatica che in Occidente ha trasformato i manifestanti in combattenti per la libertà e la democrazia e l’esecutivo di Tbilisi in uno strumento nelle mani di Putin che sta portando la Georgia verso la dittatura. La collaborazione dell’opposizione politica nel paese caucasico è stata ovviamente determinante in questo senso. La stessa presidente della Georgia, l’ex cittadina e diplomatica francese Salome Zurabishvili, nei giorni scorsi aveva apertamente appoggiato le proteste promettendo di mettere il veto sulla legge nel caso fosse stata approvata dal parlamento.

Le modalità del suo intervento pubblico avevano però in qualche modo confermato i sospetti dei promotori della legge. Salome Zurabishvili aveva infatti parlato ai georgiani dagli Stati Uniti, dove stava partecipando a un evento alle Nazioni Unite. La presidente aveva formulato la sua minaccia di veto in un video di propaganda girato sullo sfondo della Statua della Libertà a New York.

In generale, sono comunque tutte le prese di posizione dell’Occidente in questi giorni a testimoniare delle interferenze estere nella vita politica e sociale georgiana. Singolarmente, i sostenitori della democrazia e della libertà di espressione hanno messo in guardia dai rischi che la legge in discussione rappresenta per i finanziamenti e per l’assistenza di varia natura garantiti da Europa e Stati Uniti alla “società civile” georgiana, quando le organizzazioni beneficiarie sono tutt’altro che indipendenti e promuovono un’agenda destabilizzante, diretta, nel caso specifico, al rovesciamento di un governo ritenuto non sufficientemente russofobo.

In ogni caso, la maggioranza di governo a Tbilisi ha deciso per il momento di ritirare il provvedimento, citando, nel comunicato ufficiale diffuso giovedì, le “divergenze di opinione provocate nella società”. L’impegno teorico è di riproporre la legge nel prossimo futuro, dopo “avere spiegato meglio al pubblico gli obiettivi” di essa. Il passo indietro potrebbe però essere interpretato come un segno di debolezza da parte dell’opposizione e dall’Occidente, con il risultato di intensificare le pressioni per imporre un cambio di rotta alla Georgia, anche a rischio di far precipitare il paese in un nuovo disastroso conflitto con la Russia.