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La sospensione momentanea della proposta di legge sul sistema giudiziario israeliano, decisa dal primo ministro Netanyahu, ha per il momento raffreddato le tensioni nello stato ebraico dopo che le proteste del fine settimana e nella giornata di lunedì sembravano sul punto di sfuggire di mano al governo e alle forze di sicurezza. Il passo indietro appare tuttavia una pausa tattica nel tentativo di indebolire l’opposizione contro una “riforma” che in molti hanno bollato come un vero e proprio golpe da parte del gabinetto più reazionario della storia di Israele.

Le pressioni su Netanyahu erano diventate enormi dopo settimane di manifestazioni oceaniche e la presa di posizione contro la nuova legge da parte sia dei militari e del business israeliani sia degli alleati occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Lo stesso premier aveva avvertito che la situazione interna era ormai “sull’orlo della guerra civile”, resa poi ancora più grave nei giorni scorsi da una raffica di scioperi che hanno paralizzato parecchi settori dell’economia di Israele.

 

La bozza di legge in questione è un elemento chiave del progetto politico di Netanyahu e dei suoi alleati dell’ultra-destra religiosa. L’obiettivo del provvedimento è in sostanza di mettere la Corte Suprema e la giustizia israeliana in genere sotto il controllo dell’esecutivo. I punti più problematici della “riforma” riguardano la nomina politica dei magistrati e l’abrogazione di fatto della facoltà del più alto tribunale del paese di annullare le leggi incostituzionali approvate dal parlamento (“Knesset”). In gioco c’è anche la sorte personale di Netanyahu, visto che, grazie alle misure in discussione, il primo ministro sarebbe in grado di sottrarsi ai procedimenti per corruzione e altri reati di cui è formalmente accusato mentre ricopre l’incarico di capo del governo.

Tra sabato e lunedì, le proteste hanno raggiunto il culmine quando migliaia di manifestanti si sono diretti minacciosamente verso la residenza ufficiale del primo ministro a Gerusalemme. La stampa israeliana ha poi rivelato che i servizi di sicurezza avevano evacuato la famiglia Netanyahu, trasferendola presso la sede dell’agenzia di intelligence domestica (Shin Bet) di fronte al rischio concreto del superamento delle barriere posizionate a difesa dell’abitazione.

A far precipitare definitivamente la situazione era stato il licenziamento da parte di Netanyahu del ministro della Difesa, Yoav Gallant, dopo che quest’ultimo aveva apertamente denunciato la “riforma” della giustizia e invitato la maggioranza di governo a ritirarla. Gallant, membro anch’egli come il premier del partito di destra Likud, si era detto allarmato per la massiccia opposizione alla legge tra i militari. Un numero crescente di riservisti si stava infatti rifiutando di rispondere alle consuete chiamate per servire nelle forze armate, sostenendo di non volere servire un governo intenzionato a “distruggere la democrazia” in Israele.

È stato proprio l’atteggiamento dei militari, oltre al radicalizzarsi delle proteste di piazza, a suonare il campanello d’allarme per il governo e a convincere Netanyahu a congelare la legge sulla giustizia. Israele attraversa un momento delicatissimo sul fronte della repressione del popolo palestinese, con l’imporsi di nuove forme più efficaci di resistenza all’occupazione e alle violenze dello stato ebraico. In questo quadro, la perdita anche parziale di forze da destinare alla lotta anti-palestinese rappresenterebbe una seria minaccia per le fondamenta stesse su cui poggia il regime di apartheid.

Nel suo discorso televisivo di lunedì, nel quale ha annunciato la frenata sulla “riforma” della giustizia, Netanyahu ha citato esplicitamente la quasi rivolta dei militari contro il suo governo, ammettendo che “Israele non può sopravvivere senza le sue forze armate”, sia pure condannando quella che ha chiamato “insubordinazione” da parte dei soldati rifiutatisi di servire nell’esercito in segno di protesta.

Netanyahu ha inoltre assicurato di volere lanciare un “dialogo” sulla nuova legge, dopo che in precedenza il leader di uno dei partiti di opposizione, l’ex ministro della Difesa Benny Gantz, si era detto disponibile a un compromesso con il governo. Nella realtà, Netanyahu sembra avere dedicato i propri sforzi a un negoziato con i suoi alleati di estrema destra nel governo, decisamente contrari a qualsiasi cedimento sulla “riforma”. Un accordo sul rinvio è stato d’altra parte raggiunto solo in seguito a una preoccupante concessione fatta al ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, cioè la creazione di una “Guardia Nazionale” alle dipendenze del suo dicastero che minaccia di diventare un ulteriore organo paramilitare di repressione contro i palestinesi, composto di fanatici sionisti reclutati nei territori occupati.

Quella di Netanyahu è ad ogni modo una manovra diversiva per guadagnare tempo. Lo confermano ad esempio le dichiarazioni euforiche dello stesso Ben-Gvir dopo la notizia del rinvio del voto in parlamento sulla “riforma”. Il leader del partito di estrema destra Potere Ebraico ha scritto in un “tweet” che non solo la legge verrà approvata, ma la Guardia Nazionale sarà istituita e il suo ministero riceverà per intero gli stanziamenti di bilancio richiesti.

I sostenitori più irriducibili del “golpe giudiziario” promosso da Netanyahu non appaiono insomma troppo preoccupati per il rinvio. È probabile perciò che, anche in assenza di un compromesso con l’opposizione, la “riforma” tornerà in aula all’apertura della sessione estiva della “Knesset” nel mese di maggio. Di questa opinione sono gli stessi leader del movimento di protesta, che hanno infatti già promesso di continuare la mobilitazione fino a che la legge non verrà accantonata definitivamente.

L’opposizione israeliana ha da parte sua accusato Netanyahu di malafede, come dimostrerebbe la decisione della maggioranza di far passare in commissione nella giornata di martedì un discusso provvedimento riconducibile alla “riforma” della giustizia. La legge in questione ha a che fare con il cambiamento della composizione della commissione incaricata in Israele di selezionare i giudici, favorendo appunto il controllo politico. Per il governo si tratterebbe di una manovra “tecnica” che non contraddice il rinvio deciso lunedì, ma questo procedimento consente in teoria un voto in aula appena 24 ore più tardi.

Il durissimo scontro innescato dalla legge sulla giustizia va comunque ricondotto, secondo molti osservatori, a un conflitto che travalica le questioni legate alla difesa di principi democratici che, peraltro, lo stato ebraico calpesta quotidianamente. Dietro le apparenze, è in atto cioè una lotta per il potere tra le tradizionali élites ashkenazite e i leader delle comunità ortodosse e sefardite; queste ultime relegate a ruoli subalterni nella società israeliana ma oggi in una posizione di forza grazie al governo uscito dalle ultime elezioni.

Per queste sezioni della classe politica e della società dello stato ebraico si tratta di un’occasione unica per trasformare le strutture di potere secondo i propri progetti, così da controllare anche il sistema giudiziario per ottenere mano libera nella battaglia contro la laicizzazione dello stato, ma anche sul fronte degli insediamenti e, in generale, della liquidazione definitiva del “problema” palestinese. Questa realtà ha fatto emergere in parallelo tutte le divisioni che lacerano la società israeliana, distruggendo l’illusione di un disegno sionista in grado di unificare e rappresentare tutto il mondo ebraico, al di là delle divisioni politiche, sociali e di classe.

Allo stesso tempo, le proteste contro la deriva autoritaria dell’attuale governo Netanyahu non potranno che finire in un vicolo cieco se non metteranno in discussione la struttura stessa di uno stato basato sulla violenza e la discriminazione di un intero popolo. A cavalcare e guidare le mobilitazioni di queste settimane sono politici dediti anch’essi totalmente alla difesa del sistema di oppressione dei palestinesi e puntano in definitiva a salvaguardare un’architettura giudiziaria già di per sé discriminatoria, che ha la funzione di ratificare questa realtà dietro un’apparenza democratica.

Non sorprende perciò che le manifestazioni contro un governo ultra-reazionario come quello attuale non abbiano mai evidenziato il minimo tentativo di inglobare la causa palestinese o, quanto meno, di coinvolgere la minoranza arabo-israeliana. Al di là del successo o della sconfitta che attende il piano “golpista” di Netanyahu e Ben-Gvir, un’alternativa realmente democratica continuerà così a restare un miraggio se non verranno messe in discussione una volta per tutte la natura stessa di un sistema fondato su apartheid, violenza e occupazioni in totale violazione del diritto internazionale.