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di Maurizio Matteuzzi

Il vento del Maghreb alla fine è arrivato al Mashreq. Levatosi dall’occidente arabo in dicembre, in aprile ha investito l’oriente. Inevitabilmente. Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrain, Libia, ora la Siria. E dopo? La rivolta araba ha cambiato registro. Sembra non esserci più spazio per rivoluzioni gentili e profumate - come i gelsomini della Tunisia - relativamente pacifiche anche se ognuna ha richiesto centinaia di morti. Ora è guerra aperta. E, almeno in Libia, guerra «mondiale», se è vero che alla coalizione «umanitaria» dei «volenterosi» partecipano 34 paesi. Ieri la Siria ha vissuto un «venerdì di sangue», il più sanguinoso dall’inizio della rivolta, a marzo.

I morti finora sono più di 70. Un massacro. Le riforme annunciate e promesse dal presidente Bashar al-Assad (come la revoca della legge d’emergenza in vigore da 48 anni) non bastano. Troppo timide, troppo tardi, troppo poche. L’accusa di «cospirazione» per destabilizzare il paese - comune a tutti gli altri paesi investiti dalla rivolta - forse ha un fondo di verità (è di pochi giorni fa la rivelazione, da parte del Washington post, che le amministrazioni Usa, prima Bush poi Obama, finanziavano con milioni di dollari l’opposizione anti-Assad), ma non basta a spiegare - come in Libia - una sollevazione così intensa, ampia, disposta a tutto.

Ogni rivolta è diversa dalle altre, ha una sua peculiarità, ma le domande e gli obiettivi sono simili: in Siria la fine del monopolio del partito Baath, al potere da quasi mezzo secolo, un sistema politico democratico, la liberazione dei detenuti politici e lo sciogliemento dei vari mukhabarat.

In Siria gli Assad se ne devono andare, dopo 45 anni e anche se Bashar pareva disposto a riformare il (suo) sistema di potere. Come in Libia se ne deve andare Gheddafi dopo 43 anni, in Yemen Saleh dopo 33 anni. Come in Egitto e Tunisia se ne dovevano andare Mubarak e Ben Ali. Molti di loro amici e sodali dell’occidente, dittatori ma sicuri, che garantivano stabilità (e, nel caso diGheddafi, petrolio) e il controllo di quell’incubo che per la Fortezza Europa è l’immigrazione di massa.

Il problema, irrisolto, è in che modo se ne devono andare. La Siria non ha il petrolio ma è un paese strategico («non si fa la guerra senza l’Egitto e la pace senza la Siria») nel quadro di un Medioriente esplosivo. Reso ancor più esplosivo che in passato dalla fine del bipolarismo e del panarabismo (un tempo) progressista, l’avvento di nuove potenze (in primis la Cina), il declino degli Usa (già impantanati in due guerre più una da cui non riusciranno facilmente a uscire), i rigurgiti neo-coloniali o neo-imperiali di ex-potenze europee decadute come Francia e Inghilterra, il dislocamento dei rapporti centro-periferia, il peso dei social network (i «facebook boys»).

Un quadro intricato di cambio, magnifico per un lato e tragico per un altro. Ma dal finale oscuro. Che faranno ora gli «umanitari» con la Siria? La rivolta sanguinosa a Damasco ripropone domande senza risposta (o con risposte fin troppo facili): perché la «comunità internazionale» - Usa, Francia, Inghilterra in testa - non corre in soccorso anche dei civili siriani (quelli yemeniti e bahareniti, evidentemente, pesano meno)? E come, con i raid aerei della Nato, con i «corridoi umanitari», con i consiglieri militari? Per favore, qualcuno lo spieghi.

fonte: Nena News