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di Barbara Antonelli

Gerusalemme. Ridiscutere, ritornare al tavolo dei negoziati diretti, trattare. Anche rispolverare l’oramai defunto Quartetto per il Medio Oriente. Gli Stati Uniti sono pronti ad appoggiare qualsiasi opzione che non preveda la nascita di uno stato palestinese, che non metta con le spalle al muro Washington, tanto da dover ricorrere al veto per fermare in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la richiesta di piena adesione da parte palestinese.

Ieri si delineava l’iniziativa palestinese all’ONU, chiarita nell’incontro avuto tra il presidente dell’Anp (e dell’Olp) Abu Mazen e il segretario delle Nazioni Unite Ban ki-Moon (procedere con richiesta di piena adesione al Consiglio di Sicurezza e solo in seguito valutare altre opzioni, come quella “vaticana” ovvero uno status di osservatore all’ONU come lo stato vaticano che l’Assemblea Generale può garantire, dal momento che passerebbe con l’appoggio di almeno 126 sui 193 stati che compongono l’ONU); mentre i vertici di Washington valutavano tutte le strategie disponibili per evitare di arrivare a dover imporre il veto, già annunciato dal presidente Obama.

“Ma gli stati si fanno al Consiglio di Sicurezza, non all’Assemblea Generale”, ha affermato in un’intervista alla radio militare, il segretario del gabinetto di Netanyahu, Zvi Hauser. E questo lo sa anche il presidente Abbas che lunedì, appena sbarcato a New York ha fatto appello a Israele perché riconosca lo stato palestinese e non “perda un’opportunità di pace”; la manovra del presidente ha trovato conferma nelle parole del negoziatore palestinese Nabil Shaat, secondo cui “Abbas tenterà politicamente la strada del Consiglio di Sicurezza e solo dopo vaglierà altre opzioni.”

Per questo la Casa Bianca gioca in queste ore sul filo della diplomazia, ovvero convincere gli indecisi a dire no (per ora i contrari sono USA, Germania e Colombia; sicuramente favorevoli Cina, Russia, Libano, Sudafrica, Brasile, India e Nigeria; incerti, Francia, Gran Bretagna, Gabon, Bosnia-Erzegovina e Portogallo, quest’ultimo più propenso per il si): se i palestinesi non otterranno 9 voti di assenso, gli USA non saranno costretti a ricorrere al veto. Che significherebbe confermare apertamente che la Casa Bianca è contraria alla nascita di uno stato palestinese.

Per evitare di “ritrovarsi in un angolo spinti dalla stupidità di Israele”,  parole uscite di bocca alla stessa leader dell’opposizione israeliana (Kadima) Tzipi Livni, Washington ha anche riesumato il Quartetto per il Medio Oriente (USA, Russia, ONU e Unione Europea); è riapparso il portavoce Tony Blair per cui “la sola cosa che possa creare uno stato e la negoziazione diretta tra le due parti” ed è stata ridiscussa, in un incontro tra il Segretario di Stato USA Hillary Clinton e il Ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, un’opzione già emersa nei mesi passati, una bozza vaga che vedrebbe il ritorno a negoziati diretti tra Anp e Israele, in cambio di un avanzamento dello status dell’Anp e del riconoscimento da parte palestinese di Israele come stato ebraico: opzione che Abu Mazen non potrebbe mai di intraprendere perché accantonerebbe per sempre il diritto al ritorno dei profughi e metterebbe in discussione anche il pieno godimento dei diritti dei palestinesi che vivono in Israele (il 20% dell’intera popolazione).

Se da una parte il presidente Obama ha i senatori con il fiato sul collo (è di ieri l’appello al presidente perché rinnovi mercoledì, durante il suo discorso all’ONU, il pieno sostegno a Israele per non lasciarlo “solo di fronte alle minacce di Turchia e dei palestinesi”); dall’altra sa che il voto all’ONU rappresenta per ciascun paese una piena assunzione di responsabilità nei confronti dei legittimi diritti del popolo palestinese. Ha fatto il giro della stampa internazionale - e non è un caso che sia stata ripresa anche dai media israeliani - l’intervista di lunedì al Wall Street Journal del re giordano Abdullah II, attualmente a New York, amico degli Stati Uniti eppure pronto a dichiarare che il veto americano non solo “isolerebbe ancora di più Israele” e anche l’amministrazione USA, ma che porterebbero il paese a distanziarsi ancora di più dalle questioni che interessano la regione, alla luce del congelamento delle relazioni tra Israele e Turchia e delle tensioni con l’Egitto.

Israele da parte sua continua ad invocare l’arma del negoziato: ancora una volta questa mattina in un’intervista alla radio dell’esercito, l’ambasciatore all’ONU, Ron Prosor, ha affermato che “Israele è pronto a negoziare con i palestinesi domani stesso”, paventando un incontro tra il premier Netanyahu e Abbas.

Sul campo, i coloni si stanno mobilitando per organizzare proteste contro l’iniziativa all’ONU; temono che l’esercito israeliano faccia troppo affidamento sulle forze di sicurezza palestinesi per arginare eventuali manifestazioni (palestinesi) in Cisgiordania; da questo pomeriggio si sono detti pronti a manifestare, organizzando marce sui territori palestinesi - secondo quanto dichiarato dal Consiglio dei coloni - in tre direzioni: dall’insediamento di Itamar, nei pressi della città palestinese di Nablus, dalle colonie di Beit El e da Kiryat Arba (vicino Hebron). I consigli regionali dei coloni hanno già distribuito ai “settler” decine di migliaia di bandiere israeliane da portare in marcia e appendere sulle automobili.

Si teme inoltre un’escalation di violenza e atti vandalici da parte dei coloni a danno di comunità e proprietà palestinesi. Negli ultimi 10 giorni si sono infatti intensificati gli attacchi a moschee, automobili, proprietà e terre agricole palestinesi: il prezzo da pagare (price-tag strategy) per l’iniziativa all’ONU. Un trend in aumento, dato che la nota diffusa oggi dal gabinetto del Primo Ministro palestinese, parla di 40 attacchi solo nel mese di settembre. Questa mattina i coloni hanno dato alle fiamme diversi dunam di terra agricola appartenenti al villaggio palestinese di Ainabous, vicino Nablus, in aggiunta agli oltre 500 alberi (in gran parte ulivi) bruciati ieri nel governatorato di Salfit (a Deir Istiya).

Per monitorare e registrare con l’uso di videocamere il prevedibile aumento di attacchi da parte dei coloni, attivisti palestinesi e internazionali dei comitati popolari per la resistenza nonviolenta, hanno lanciato una campagna: “gruppi di volontari - ha spiegato a Maan News l’attivista israeliano Jonathan Pollak - saranno a disposizione, pronti ad intervenire dove ce ne sarà bisogno”.

Si teme anche un collasso della situazione economica in Cisgiordania:  ne ha parlato il governatore per l’autorità monetaria palestinese Jihad al -Wazir sempre a Maan News, temendo che gli Stati Uniti possano interrompere di colpo “il versamento dei 500 milioni di dollari nelle casse dell’Anp”. Una questione che preoccupa anche il 64% dei palestinesi intervistati dal Centro palestinese per la ricerca politica (Pcpsr). Nel sondaggio, che ha interessato un campione di 1200 persone tra Cisgiordania e Gaza, l’85% degli intervistati è a favore dell’iniziativa all’ONU; il 78% teme però teme la risposta immediata di Israele sul terreno, ovvero il congelamento dei dazi doganali versati all’Anp e altre misure straordinarie quali l’aumento dei blocchi stradali e le chiusure dei checkpoint.

Fonte Nena News