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Si parte per vendere e si finisce per comprare. Sembrava che il ministro dell’Economia Giovanni Tria fosse andato in Cina per vendere i titoli del debito italiano e invece è venuto da Pechino l’annuncio che la Banca d’Italia inizierà a diversificare le proprie riserve valutarie includendo il renminbi e quindi titoli di stato cinesi. Non è una novità che dai cinesi compriamo quasi tutto: la Cina è tornata a essere una fabbrica-mondo come lo fu fino alla vigilia della rivoluzione industriale europea.

 

Importiamo dalla Cina molto di più di quanto esportiamo: quasi il doppio. È il terzo Paese del mondo per valore delle merci che l’Italia importa dall’estero, dopo Germania e Francia. Dalla Cina arrivano prodotti per un valore quasi doppio rispetto, per esempio, a quelli che arrivano dagli Stati Uniti (28,4 miliardi di euro contro 15 miliardi lo scorso anno, secondo i dati del ministero per lo Sviluppo economico).

 

Per ogni euro che spendiamo in merci prodotte nel loro Paese, i cinesi spendono meno di 50 centesimi in prodotti italiani. Quindi la nostra bilancia commerciale (che a livello complessivo è in attivo) rispetto alla Cina è negativa: alle aziende cinesi sono rimasti 15 miliardi di euro di differenza lo scorso anno, spesi dagli italiani.

La Cina è un destino, non solo segnato dalla storia ma dal presente e dal futuro. È la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, anche se il suo prodotto interno lordo è poco più di sei volte quello dell’Italia, secondo i dati della Banca mondiale: in dollari la produzione cinese vale 12,2 milioni di miliardi e quella dell’Italia 1,9 milioni di miliardi.

 

La Cina però cresce con tassi di sviluppo molto superiori al nostro e quindi la distanza si sta allargando a dismisura. Basti pensare che vent’anni fa, nel 1998, il Pil dell’Italia era del 20% più alto di quello cinese. Noi andiamo piano, la Cina vola. Eppure le cose non sono così nette quando si scende nel dettaglio, che però è anche sostanza.

 

Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione. Il picco degli investimenti si è avuto soprattutto tra il 2014 e il 2015, anno in cui il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.

 

In realtà l’annuncio che la Banca d’Italia compra titoli cinesi nasconde una preciso intento diplomatico ed economico. Il messaggio è indiretto ma chiaro agli interlocutori internazionali: Italia e Cina hanno l’obiettivo comune di difendere la stabilità finanziaria internazionale, i liberi commerci e sviluppare ulteriormente i rapporti economici per cui, dopo gli investimenti diretti già effettuati e le potenzialità ancora inespresse, Pechino ha un interesse concreto alla stabilità italiana.

La verità è che i cinesi dagli italiani comprano assai ma soprattutto quello che a loro interessa, nell’ottica di una strategia di espansione in Europa e nel Mediterraneo. Dal calcio (Inter e Milan) alle quote in gruppi strategici, la Cina è dall'inizio del 2014 sempre più presente nell'industria italiana.

 

Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione. Il picco degli investimenti si è avuto soprattutto tra il 2014 e il 2015, anno in cui il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.

 

Gli investimenti cinesi vanno dai 400 milioni di euro di Shanghai Electric in Ansaldo Energia all’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso dell'energia elettrica di Pechino, China State Grid, per un valore complessivo di 2,81 miliardi di euro. Interessati dalle mire cinesi sono stati anche i gruppi dell'agroalimentare, come il brand Filippo Berio, controllato da Salov, in cui il gruppo cinese Bright Food ha acquisito una quota di maggioranza, o quelli della moda, con il passaggio di Krizia al gruppo di Shenzhen, Marisfrolg. Tra gli investimenti più recenti, da ricordare, nel 2017, l'acquisizione del gruppo biomedicale Esaote da parte di un consorzio nel quale figura anche Yufeng Capital, co-fondato dal patron di Alibaba, il gigante dell'e-commerce cinese, Jack Ma.

 

Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia. Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste - e la nuova zona franca - come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez.

 

L’interesse della Cina verso l'Italia non è sfuggito ai nostri concorrenti: secondo uno studio pubblicato nel 2017 dal Mercator Institute for China Studies di Berlino e dal gruppo di consulenza Rhodium Group, tra il 2000 e il 2016, l'Italia è stata al terzo posto, tra i Paesi dell'Unione Europea, come meta degli investimenti cinesi, a quota 12,8 miliardi di euro. Hanno fatto meglio solo la Gran Bretagna, a quota 23,6 miliardi, e la Germania, in seconda posizione con 18,8 miliardi di euro. La tendenza è cambiata alla fine del 2016 quando Pechino ha dato un taglio allo shopping sfrenato dei gruppi cinesi all'estero per concentrarsi sui progetti di sviluppo industriale e su quelli che rientrano nell'iniziativa di sviluppo infrastrutturale tra Asia, Europa e Africa Belt and Road, lanciata dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.

 

Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia. Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste - e la nuova zona franca - come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez. Da quando i cinesi gestiscono il Pireo, il traffico dei container è aumentato di 6 volte, e il porto è passato dalla 93esima posizione mondiale alla 36esima, diventando il terminal con la crescita più rapida al mondo.

 

Dietro a questa strategia cinese non ci sono solo i commerci. Secondo i dati sulla spesa militare globale diffusi dal Sipri la Cina è il secondo paese per spesa militare complessiva dopo gli Stati Uniti, che con oltre 600 miliardi di dollari contro 225 conservano saldamente la prima posizione. Quello che colpisce è lo straordinario aumento della spesa militare cinese, più che raddoppiata dal 2008 a oggi, mentre gli Usa l'hanno diminuita del 14%. Un evento di portata storica per la semplice ragione che certifica la Cina come potenza non solo economica ma anche militare: un evento che ci riguarda direttamente.

 

Da più di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta” agevolata dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi. È proprio l’ “hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza militare globale proiettata anche verso il Mediterraneo oltre che in Africa, su un palcoscenico dove dominano Washington e la Nato. Forse ancora non a lungo: anche per questo l’Italia ha un ruolo non secondario nelle strategie cinesi.

 

fonte: www.linkiesta.it