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di Elena G. Polidori

Il governo si è finalmente accorto che la Rai naviga in guai seri. Se n’è accorto con un colpevole ritardo di un anno e mezzo, una misura di tempo enorme per un azionista di maggioranza della tv pubblica, qual è il Tesoro, e che ha fatto maturare bilanci da far tremare i polsi. E il prossimo esercizio sarà anche peggio. Ma se il governo, oggi e non ieri, ha deciso di intervenire facendo fuori quell’unico consigliere su cui aveva potere di revoca secondo la legge Gasparri (Angelo Maria Petroni) non è certo perché – come è stato fatto credere in prima battuta – si era raggiunto il cosiddetto “punto di non ritorno”, uno stallo di gestione mai conosciuto prima dalla tv di Stato. Ovviamente, come tutte le volte che si parla della Rai, laboratorio politico del Paese, le ragioni di questo intervento sono altre. Oscillano dal conflitto d’interessi fino alla nuova legge elettorale, passando anche per la legge sui Dico e le nuove aggregazioni politiche della sinistra, nonché per il riassetto del sistema tv, meglio noto come legge Gentiloni. E se si considera che, in virtù della legge Gasparri, 7 consiglieri Rai sono espressione del voto della Commissione di Vigilanza, uno è nominato dal Tesoro e il Presidente rappresenta la "summa" di un complicato intreccio di mediazioni e "scambi" politici, ci si può rendere facilmente conto di quali interessi diversi sia portatore ciascuno dei componenti del vertice aziendale Rai. Oggi, quindi, si potrebbe dire, per fare un esempio calzante, che la stanza del cda Rai, al settimo piano di viale Mazzini, è un cantiere aperto. E che questa pilotatissima crisi della gestione dell’azienda fotografa fedelmente l’impossibilità di qualsivoglia accordo sui temi politici caldi del momento tra la claudicante maggioranza di governo e un’opposizione che si sente già addosso da tempo la maglietta della rivincita elettorale.

Berlusconi teme come la peste che il governo metta mano con decisione al conflitto d’interessi. Ma ancor più teme che una spinta propulsiva di ideazione derivante dal cambio di direzione a Raiuno e Raidue (le due reti ancora al soldo dell’opposizione) possa far ripartire gli ascolti (e, di conseguenza, la raccolta pubblicitaria) mettendo in gravi ambasce la sua Mediaset che non naviga affatto in acque serene. Anzi. Della crisi Rai si parla perché è finanziata da un canone che pagano i cittadini.

E dunque fa scandalo che i soldi del contribuente possano venir spesi per sovvenzionare programmi che sono un insulto all’intelligenza, anche la meno raffinata. Della crisi Mediaset si parla meno, ma solo Canale 5 negli ultimi mesi ha chiuso tre programmi e Italia Uno due. Se, insomma, a Raidue arrivasse un cavallo di razza come Giovanni Minoli al posto dell’inadeguato Antonio Marano, forse in breve la rete conoscerebbe una nuova giovinezza dal punto di vista della programmazione di qualità e, conseguentemente, del famigerato share.

Dettagli di mercato squisitamente televisivo a parte, non vi é dubbio che la crisi Rai sia di natura pesantemente politica. E Prodi si è cacciato in un brutto guaio. Decidendo, attraverso Padoa Schioppa, di accelerare l’agonia di questo cda Rai, ha di fatto forzato la mano su un altro fronte, quello della legge Gentiloni, che ora si vuole portare subito in Parlamento sotto forma di ddl, ma senza avere un paracadute. Una legge del genere, destinata a seppellire la Gasparri per rendere la Rai una Fondazione più distaccata di ora dall’ingerenza della politica, è destinata a non vedere mai la luce. Almeno con i numeri parlamentari in possesso dell’attuale maggioranza di governo.

Perché, allora, tanta fretta? La priorità di Prodi (ma soprattutto del nascendo Partito Democratico) sembra essere quella di blindare la Rai sostituendo a Petroni un uomo di area PD. E di costringere Berlusconi, in questo modo, a venire a patti sulla Gentiloni (ma soprattutto sulla legge elettorale e sul conflitto d’interesse) in cambio dell’attuale sopravvivenza dell’assetto di seggiole e poltrone della tv pubblica. Questo gioco, tuttavia, rischia di diventare uno stillicidio di carte bollate (Petroni farà ovviamente ricorso al Tar e al Consiglio di Stato) e ci vorranno mesi prima che un nuovo consigliere possa far ingresso a viale Mazzini al suo posto.

La Rai, di questo, non se ne gioverà di certo. Perché rimarrà imballata nell’attuale immobilismo gestionale ancora a lungo, forse fino ad ottobre, quando le priorità della politica saranno diventate altre, mentre quelle della Rai saranno rimaste drammaticamente le stesse. Improbabile, infatti, che un Prodi rinsavito decida di mettersi attorno ad un tavolo con Berlusconi e con gli altri leader della Cdl per cercare un accordo sul futuro dell’azienda, ma anche sulle altre questioni sul tappeto. Solo attraverso una difficile mediazione, infatti, si potrebbe uscire senza troppe vittime sul campo dalla palude dell’attuale situazione politica di cui la Rai è solo la punta dell’iceberg; e comunque, anche questa possibilità si potrebbe realizzare solo dopo la definitiva nascita del partito Democratico.

Insomma, per vedere qualche novità su tutti i fronti si dovrà aspettare il prossimo ottobre. Tra queste, comunque, non è previsto Fabrizio Del Noce alla presidenza della Rai. C’è un limite anche per la satira.