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di Giovanni Gnazzi

Si ammanta di riformismo, ma a ben vedere é un passo indietro. Si parla della minacciata o auspicata – dipende dai punti di vista – ondata di liberalizzazioni per i servizi pubblici locali. Il progetto di legge Lanzillotta, in discussione al Senato, era uno dei paradigmi eccellenti dell’ansia di consegnare al profitto privato gli interessi pubblici. Ma, alla fine, il Ministro Lanzillotta ha dovuto cedere. L’opposizione della sinistra al suo ddl sulla riforma dei servizi pubblici locali ne impediva l’approvazione da parte della maggioranza. E le ripetute offerte dell’Udc, oltre a non essere probabilmente sufficienti per il varo del provvedimento, in assenza del voto della sinistra avrebbero prodotto un terremoto politico nella maggioranza governativa. Da qui la necessità di accettare gli emendamenti che la sinistra ha apportato al testo, che potrà ora continuare a seguire l’iter previsto. Non a caso, poche ore prima, la capogruppo dell'Unione, Anna Finocchiaro, aveva detto a chiare lettere che l'uscita di molti senatori ex-DS, approdati nelle fila della sinistra, avrebbe messo il governo in difficoltà. "Nessuno si sogni di buttare questioni delicate nell'agone del Senato pensando poi che noi teniamo la barra - ha detto Finocchiaro. Parole incontrovertibili che hanno spinto Prodi ad imporre alla Lanzillotta una totale marcia indietro. Con il testo modificato, dunque, i Comuni potranno tornare a gestire direttamente trasporti ed energia come rifiuti (tramite aziende speciali). Gli Enti Locali potranno così ripubblicizzare i servizi o assegnarli a terzi tramite una gara. Niente più gestioni in casa o alle assegnazioni dirette a SpA private in forma ma a controllo pubblico in sostanza; dovranno partecipare alle gare o cambiare denominazione, divenendo aziende speciali sulle quali gli Enti Pubblici eserciteranno un adeguato controllo. Ma, soprattutto, fine della corsia preferenziale destinata alle società miste, quell’ibrido di capitale pubblico e dividendi privati.

Nella sostanza, quello dato al ddl Lanzillotta è uno stop importante delle politiche neoliberiste nell’ambito dei servizi. La legge sui servizi pubblici locali, istituita ai primi del ‘900, assegnò ai comuni la possibilità di decidere se affidare o no i servizi pubblici locali in concessione ai soggetti privati. Già, perché fino a tutto l’800, erano proprio i privati, a costi esorbitanti, a gestirli. Ebbene, centosette anni dopo, in nome della modernizzazione, si tornava indietro. Si badi bene: nel testo originale del ddl Lanzillotta, ai Comuni non veniva più permesso di scegliere se gestire in proprio o dare in appalto o attuare un sistema misto pubblico-privato; essi sarebbero stati, sostanzialmente e salvo rare “eccezioni”, obbligati all’esternalizzazione dei servizi sul modello privatistico delle SpA. I moduli di gestione interni o misti sarebbero divenuti appunto rare eccezioni. Il tutto in barba alla giurisprudenza comunitaria e ad allo spirito della Costituzione.

Ma la decisione raggiunta in sede senatoriale non deve far perdere d’occhio la portata generale del problema. Perché se sembrerebbero aver ricevuto un parziale stop le operazioni di lobbing delle diverse aziende affamate di business nel settore dei servizi pubblici locali, la campagna ideologica a favore della privatizzazione del complesso dei servizi pubblici, è tutt’altro che in ritirata. Una parte della politica ed una parte delle imprese le stanno spacciando come la panacea della concorrenzialità, l’apoteosi del libero mercato, il trionfo dell’efficienza amministrativa. Autonominatisi celebri economisti dalle colonne dei giornali, ne spiegano le virtù con quel tanto d’insofferenza che credono gli dia un tono. L’Unione si agita e la destra spinge.

Si distingue, tra tutti, Linda Lanzillotta, una sorta di sacerdotessa dei mercati che ha deciso d’inserire la sua ossessione per le privatizzazioni quale compito prioritario del suo Dipartimento Affari Regionali, che a ben altro sarebbe dedicato. Il “lanzillottismo” è una filosofia semplice: assegnare ai privati quello che è pubblico, fargli realizzare privati affari su pubblici diritti. Ma “lanzillottismo” a parte, é grave che il blocco maggioritario del centrosinistra sia spalmato sul modello economico che prevede, dismissione su dismissione, l'uscita definitiva dell'interesse pubblico dalla gestione dei servizi, favorendo una oggettiva, ulteriore selezione degli aventi possibilità d'accesso ai diritti in luogo dell’inclusione sociale.

In realtà le privatizzazioni sono un business, niente altro. Sostenute da una campagna mediatica che corrisponde, pagina più pagina meno, al volume dell’affare sul quale un pull di aziende ha scelto d’investire. Peccato, però, che il piatto ricco su cui aziende e i loro sponsor politici si tuffano non sia affatto redditizio per i cittadini; anzi, più in generale, lungi dal rappresentare una crescita qualitativa nell’erogazione dei servizi, riducono le possibilità d’accesso di tutti noi agli stessi riducendo sostanzialmente l’efficacia del principio della coesione economico-sociale. Il tentativo di arrivare alla gestione privata dell'acqua è solo l'ultimo (ma forse il più grave) da respingere.

Andrebbe ricordato agli ultraliberisti in servizio permanente che i trasporti, l’energia, l’acqua e la comunicazione, sono settori strategici per la sovranità di un paese. E che se a loro il concetto di sovranità risulta una noiosa clausola che perde di valore di fronte alla stesura di un bilancio, è solo perché hanno una idea della politica e dell’economia che vede la prima al servizio della seconda ed il bene comune quale opzione subordinata degli affari privati.

Gli oppositori del piano di privatizzazioni (che elegantemente vengono definite liberalizzazioni) subiscono gli strali ideologici dei nostri liberisti un tanto al chilo. Li si accusa di opposizione ideologica, ma lo si fà in nome dell’ideologia del mercato libero da vincoli. Contro chi chiede l’intervento e la presenza delle autorità pubbliche in difesa dei regimi di equità e sostenibilità dei servizi, si brandisce lo spadone del credo confindustriale che vuole lo Stato, in tutte le sue articolazioni territoriali, fuori dai processi economici e persino dall’attività di controllo (tranne, magari, quando deve stanziare i fondi per le imprese). Già, perché persino il controllo, non solo la possibilità di scegliere se privatizzare o no i servizi pubblici da parte delle Amministrazioni locali, viene letta come una “insopportabile ingerenza” nel cosiddetto mercato.

Il tema è un tema sostanziale, strategico; é quello dei servizi come restituzione indiretta del contributo di ognuno di noi alla fiscalità generale e anche come ammortizzatore sociale. Come dovere da parte dell’ente erogante e come diritto degli utenti, che contribuiscono con le loro imposte a disegnare un modello di stato sociale in grado di garantire l’accesso per tutti ai diritti di cittadinanza.

Eppure, oltre le grida manzoniane sulla virtù delle privatizzazioni, un dato è noto e conclamato: mai, in nessun paese ( e comunque non in Italia) la privatizzazione dei servizi pubblici - siano linee aeree, telefonia, ferrovie, gas, energia o acqua - ha mai prodotto abbassamento dei costi e miglior efficienza nella loro erogazione. E, meno che mai, incremento o ampliamento degli stessi. A fronte della cessione ai privati della gestione dei servizi pubblici, sono invece aumentati i prezzi ed é diminuita la qualità e la quantità della loro erogazione.

Dunque va detto a voce alta quello che tutti intuiscono nella sua semplicità: se le imprese sono desiderose di acquisire la gestione dei servizi pubblici è perché ritengono di guadagnarci, non certo per filantropia. Ma se la gestione dei servizi è in perdita e se il maggiore accesso agli stessi pregiudica ulteriormente i bilanci, come si ritiene di renderli altrettanto capillari ma più efficienti, meno costosi e nello stesso tempo convenienti?

Dal momento che presunti geni della finanza con responsabilità sociale difettano, la risposta è semplice: si possono riassestare i bilanci solo riducendo il costo del processo di erogazione e limitandone la qualità e contraendone la l’ampiezza. Si devono quindi ridurre il costo del lavoro e l’estensione in quantità e qualità degli stessi, parallelamente ad un aumento delle tariffe.
Ma questo cosa ha che vedere con l’interesse collettivo? L’impresa pubblica, quale gestore dei servizi pubblici essenziali, ha totale diritto di cittadinanza e il tentativo di ridurne la relativa sfera di competenza al solo obbligo di cederne la gestione ai privati, è uno dei passaggi dell'operazione che tende a smantellare progressivamente le istituzioni pubbliche per indebolire gli interessi generali e la loro tutela.

Si tratta dunque di scegliere. Allargare e migliorare i servizi, modernizzare e renderne più efficienti i livelli di erogazione, oppure costituire piccole casseforti per imprese che, nella loro natura, sono dedicate al profitto (il loro, non quello collettivo). E non ci si venga a dire che le imprese che vincono gli appalti per la fornitura dei servizi pubblici hanno vincoli precisi da rispettare per mantenerne lo standard d’accesso. Non è mai successo, non succederà mai. Checché ne dicano le Thatcher all'amatriciana.