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di Fabrizio Casari

Il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha avuto un lungo colloquio con George W. Bush. Un colloquio amichevole e cordiale, come precisa l’Ufficio Stampa di Palazzo Chigi. E fin qui niente di nuovo. Ma Prodi ha anche tenuto a precisare che non c’erano da affrontare problemi nei rapporti bilaterali, dal momento che, problemi, non ve ne sono. Siamo alleati ed amici, ha detto il professore, dunque nessun contenzioso. E invece no, le cose non stanno così. O meglio, stanno forse così per Prodi, ma non per l’Italia. Che di problemi nell’ambito delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti ne ha, eccome se ne ha. A cominciare dalla mancata estradizione del militare Usa Lozano, l’assassino di Nicola Calipari, passando per l’ampliamento della base dell’Us Army di Vicenza, Dal Molin, per finire con la scomposta, gravissima ingerenza dell’ambasciatore statunitense a Roma nei temi che riguardano la politica nazionale ed estera dell’Italia. Risate come si fosse sul set di “La sai l’ultima?” e pacche sulle spalle hanno caratterizzato la performance diplomatica dell’inquilino di Palazzo Chigi, che sembra aver abbandonato la proverbiale riservatezza e pacatezza per inseguire lo spettacolino al quale il suo predecessore ci aveva tristemente abituato. Mancavano solo le corna alle foto di rito, ma queste finesse il professore di Bologna, per fortuna, davvero non le ha nel suo Dna. Ma i parenti delle vittime del Cermis, o di Nicola Calipari, nel vedere immagini nella quali il clima ridanciano la fa da padrone, non avranno certamente avuto un sussulto di soddisfazione. Non era quello che volevano gli italiani, che fossero in corteo o al sit-in o anche a casa. Prodi ha perso una ottima occasione per tenere alta la testa e rappresentare di fronte all’uomo che in ogni luogo del mondo viene considerato l’artefice di guerre ingiuste ed invasioni illegittime, le ragioni dell’Italia, che riguardano anche il comportamento del governo afgano verso Hanefi, i colloqui con l’Iran e la Siria, la questione mediorientale, la moratoria sulla pena di morte all’Onu, la questione albanese e serba. Appare evidente nelle questioni di politica estera la differenza d’approccio del ministro degli Esteri D’Alema con quello del premier.

La domanda che s’impone è questa: dal momento che in sede di G-8 c’erano già stati incontri tra i due, se non c’erano elementi afferenti la natura dei rapporti bilaterali, cosa è venuto a fare in Italia George W. Bush? E quindi: per quale motivo è stata blindata una città, per quale ragione sono stati spesi diversi milioni di Euro per accoglierlo? Solo per ribadire quanto siamo amici e alleati? Si voleva forse dimostrare che l’avversione iniziale di Washington per il governo di centrosinistra, nata con l’uscita delle nostre truppe dall’Iraq, non ha più motivo di esistere? Che questo governo è né più né meno un governo amico ed alleato, come tutti quelli degli ultimi 62 anni? Si voleva forse dimostrare che le posizioni indipendentiste in politica estera della quota di sinistra di questo governo non determinano una posizione più esigente e franca verso le scelte di Washington? Se Prodi ritiene che per continuare a governare debba avere il plauso di Washington e non i voti degli italiani, almeno di quelli che in buona parte gli hanno permesso di vincere, c’è davvero qualcosa che non va. Ci rifletta il Professore: nel caso la tendenza verso il governo “tecnico” si rafforzi ancor più di quanto già non lo sia, non sarà lo spettacolo offerto sabato a salvarlo. L’obiettivo è lui, Prodi. E quelli che hanno applaudito sono gli stessi che stanno cercando di mandarlo a casa. Solo che, chi dovrebbe difenderlo, non trova più ragioni per farlo.

Quanto alla sinistra, la divisione maturata nelle manifestazioni è solo la somma di diversi errori. Quello più macroscopico l’hanno commesso i segretari dei partiti della sinistra al governo, convocando un happening che, pur avendo motivazioni politiche corrette quanto inconciliabili con il corteo (che era contro Bush e Prodi, accumunati in una similitudine che risulta più stupida che sbagliata) non ha però capito il senso stretto di un agire politico diffuso; a maggior ragione in una fase di crisi della rappresentanza politica e del ruolo dei partiti, che vede nella lotta contro la guerra un bisogno primario, una esigenza identitaria non mediabile dalla rappresentanza politica. Il dualismo tra pace e guerra non è solo quello inconciliabile tra due forme opposte di concepire la democraticità del sistema, locale e globale che sia; ma anche il terreno sul quale nessuno rinuncia a porre la sua testimonianza in forma diretta, definitiva, non mediabile tra contenuto e tattica politica. E le forme s’incontrano con la sostanza anche sul piano simbolico, anche quando rischiano di proporsi come ritualità. Questo non è stato compreso e le parole di alcuni dei dirigenti della sinistra a Piazza del Popolo, in particolare quelle di Diliberto, denunciano questa difficoltà di lettura che non era poi così complicata, dal momento che anche coloro i quali non hanno voluto sfilare in corteo si sono ben guardati dal recarsi all’happening.

E se i dirigenti di Prc, Pdci e Verdi avranno su che riflettere in ordine al costo che la sinistra paga per mantenere in piedi un governo indisponibile ad ascoltarla o, come dice Cacciari, pronto a darsi da fare per farne a meno, bene farebbero gli esponenti della minoranza di Prc a non confondere alcune decine di migliaia di persone che marciano contro la guerra come bottino del nuovo, ennesimo partitino a sinistra di tutto. Le decine di migliaia di pacifisti erano in corteo contro Bush e contro la guerra, magari scontenti del governo o indifferenti al quadro politico nazionale. Ma senza la presenza di Bush, catalizzatore assoluto di ogni protesta, non avrebbero avuto nemmeno un terzo di quella partecipazione, comunque infinitamente minore rispetto a quelle degli anni scorsi. Tanto per ricordare che se la sinistra di governo qualche problema ce l’ha, non è che chi si ritiene voce e rappresentanza del Movimento ne abbia meno. La sinistra dovrà interrogarsi sul suo futuro, ma non è possibile farlo con lo sguardo rivolto al passato. E’ oggi il momento di dimostrare se è possibile e cosa significa per la sinistra restare nel governo.

La strada per riconciliare le ragioni della sinistra e la capacità di governo è stretta. Ottenere dei risultati immediati, pari almeno alla forza parlamentare di cui si dispone, è obiettivo minimo non più rinviabile. Ma chi a sinistra ci vuole davvero provare? E allora, forse, non serve chiudersi in un cinema per decidere percorsi ancora nebulosi. Ci si deve credere davvero per farci credere quelli che dal quel cinema sono rimasti fuori. Serve tornare all’aperto, con la propria gente, a cercare di riannodare un filo diverso da quelli usati fino ad ora, fatti di equilibrismi e tatticismi dei quali, davvero, è tempo di disfarsi. Persino le parole vanno cambiate. E forse non solo le parole.

Uscire allo scoperto è il primo passo. Senza calendari ipotetici che rimandano a giochi incrociati e verdetti elettorali dei quali non c’è bisogno per decidere l’urgenza dell’unità, qui e ora. Serve uno scatto, serve crederci, indipendentemente dai calcoli politici. La strada per riconciliare le ragioni della sinistra e la sua capacità di governo, purtroppo, è lunga e in salita. E camminare sul battistrada, rischiando, può essere meglio che camminare contromano.