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di Maura Cossutta

Quattro ministri, Fabio Mussi, Paolo Ferrero, Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi, hanno preso carta e penna e hanno scritto a Prodi. Hanno scritto una lettera perché, mentre giovedì prossimo Prodi dovrebbe presentare al Consiglio dei Ministri il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF), nessuno di loro è mai stato coinvolto, sentito, ascoltato. Altri ministri sì, sono stati ricevuti e con loro si sono formulate proposte, si sono definite cifre. Una lettera, quindi, che rappresenta innanzitutto una esplicita e dura critica di metodo, di mancanza di collegialità e che è già questione di merito. Un governo che non si presenta insieme all’appuntamento del DPEF dimostra infatti di avere seri e gravi problemi politici al suo interno; un Presidente del Consiglio che procede senza coinvolgere nemmeno i suoi ministri dimostra di essere schiacciato da questa debolezza e per questo destinato soltanto ad essere condizionato da chi è più forte. Dini in questo senso si è già fatto subito sentire, ponendo il suo diktat, e dietro di lui quel pezzo dei poteri economici e di forze politiche che stanno aspettando il tempo del cambio della guardia, dell’espulsione dalla maggioranza delle forze della sinistra”radicale” per aprire a un governo istituzionale. E contro Dini la stampa che conta non ha lanciato strali, anzi; contro i quattro ministri, viceversa, sta partendo un fuoco incrociato: i soliti irresponsabili, ideologici, irriducibili. Montezemolo ha poi rincarato la dose, con la volgarità e l’arroganza dei veri padroni, dicendo che il paese non può essere ostaggio dei sindacati, quelli che difendono soltanto i “fannulloni” della Pubblica Amministrazione. Ma il Partito che non c’è, inteso come Partito Democratico, non si è prodigato nel sollevamento delle coscienze democratiche. Perfino Epifani, invece, uomo conosciuto per la sua sobrietà, ha ieri lanciato un vero allarme democratico, proprio a partire da queste dichiarazioni, che bene esprimono una strategia che è in atto e che sta minando le basi stesse delle istituzioni democratiche. “”In Italia – ha detto - soffia una pericolosa aria di diciannovismo, la politica non risponde più al paese e gli industriali, come novelli agrari, si infilano in questo vuoto”. Parole forti, che pesano e che dovrebbero far riflettere tutti.

L’attacco ai sindacati è parte di una strategia eversiva, che cerca di fare i conti definitivi con la storia più recente (ma anche di quella passata) del nostro paese, fatta di lotte e conquiste sociali, di diritti, di welfare. Di sinistra. Da una parte allora ecco l’antipolitica, da tutti evocata ma non analizzata nelle sue cause, che fa emergere la massa indistinta degli individualismi, dei particolarismi, del qualunquismo; dall’altra la rimozione dei soggetti storici della rappresentanza sociale e politica. Mentre in tutto il mondo le politiche liberiste stanno dimostrando il loro fallimento, nel nostro paese sembra tornare la sempre antica certezza che il mercato e l’impresa sono i soli fattori di sviluppo. Sì, si respira aria di populismo, di un nuovo bonapartismo, impregnato di contenuti autoritari e di politiche socialmente retrive.

D’altra parte, anche in Europa vince la destra, evocando paure sociali, e anche la costruzione europea segna il passo. La riunione dei capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, svoltasi a Bruxelles nei giorni scorsi, per definire il percorso della futura carta costituzionale, ha dovuto registrare posizioni contrarie all’introduzione nel Trattato della Carta dei diritti fondamentali. Anche l’Europa vede vacillare la tenuta del suo modello sociale, che ha costituito la sua identità storica e culturale per tutto un secolo. Sono all’orizzonte rischi veri, rischi di passaggio di fase, su cui la politica non si interroga e rispetto ai quali soprattutto non si posiziona. Il nostro governo che dice, che fa? Bene hanno fatto quindi i quattro ministri della sinistra che c’è a prendere l’iniziativa, a segnare la necessità di una svolta. Si deve discutere del DPEF e si deve anche discutere di quale prospettiva, quale strategia vuole avere questo governo.

D’altra parte le scelte sul DPEF riguardano la redistribuzione dell’extra gettito e le pensioni, ma anche la rotta che si vuole prendere, per l’oggi e per il domani. In questo senso, come anche Epifani ha ammonito, Prodi ha pochi giorni per fare scelte decisive per il suo futuro: o è in grado di fare questa svolta, oppure fallisce. Sul DPEF, lo scontro con il ministro dell’economia Padoa Schioppa non è uno scontro tecnico, ma politico. E le cifre che si decidono non sono solo dati, ma sono anche scelte di politica economica, sociale. Dopo una finanziaria che possiamo ben definire senza né sogni, né speranza, oggi occorre una forte redistribuzione dell’extragettito, che è pari a 10 miliardi di euro, a favore dei lavoratori, dei pensionati, di chi sta peggio.

Le risorse oggi ci sono, nonostante quello che in questi giorni ha continuato a dire Padoa Schioppa, cioè che il “tesoretto” non è né stabile, né sicuro, che già da quest’anno avremo avuto meno entrate, che quindi non si può utilizzarlo per aumentare la spesa sociale ma solo per ridurre il deficit. E, per ironia della sorte, è stato proprio il dipartimento delle Politiche fiscali del suo stesso ministero a smentirlo, comunicando ieri che le entrate fiscali registrate in aprile di quest’anno, rispetto all’anno scorso, sono aumentate del 9.4%.

Quindi il “tesoretto” si può ridistribuire, ma in che misura? La proposta di utilizzare 7.5 miliardi per la riduzione del deficit e solo 2.5 miliardi per aumentare le pensioni più basse, per garantire ammortizzatori sociali per i lavoratori nelle fasi di inattività lavorativa e per incentivare la produttività, non tiene. Inoltre, se si vuole coprire la cancellazione dello scalone, come previsto dal programma dell’Unione, occorrono altre risorse. O invece, come pare Prodi stia facendo nella trattativa con i sindacati, si propone l’introduzione di “scalini” o la modifica dei coefficienti? Già nei giorni scorsi sono scesi in sciopero i metalmeccanici e altri scioperi spontanei sono previsti per i prossimi giorni. I sindacati sanno che su questo passaggio si stanno giocando la credibilità del loro ruolo di rappresentanza, le forze politiche della sinistra hanno già dichiarato che non sono d’accordo: si andrà avanti, mettendo in previsione anche la rottura?

Bene hanno fatto allora i quattro ministri. Hanno parlato a Prodi, al governo, ma hanno anche parlato a tutto il paese. La sinistra c’è, non è vero che è superata, che è residuale, che è nostalgia. La sinistra non è il prodotto del passato, ma l’investimento per il futuro. E la sinistra non si logora più nelle divisioni, nelle ferite, nelle distinzioni, ma è capace di suscitare fiducia, entusiasmo, speranza. I ministri della Sinistra Democratica, di Rifondazione, dei Comunisti italiani, dei Verdi, tutti insieme, sperimentando un patto d’azione comune che mai era stato praticato, hanno dato un messaggio politico e simbolico. E’ un buon inizio, ma non può bastare.

Quello che il popolo della sinistra chiede è un messaggio ancora più chiaro: non pensare all’unità della sinistra in modo tattico, solo per avere una maggiore forza di contrattazione nel governo, ma uscire davvero dai recinti, dalle trincee. Un partito della sinistra, tutti insieme, presto, subito. O sarà così, o la sinistra, la sua stessa esistenza, la sua stessa funzione non sarà più in campo. E per molto tempo a venire.