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di Sara Nicoli

E’ strano, ma tutte le volte che si parla di ciò che accade in Rai, è sempre un fatto clamoroso. Nel male, ovviamente. Anche stavolta, la tradizione è puntualmente rispettata. La sentenza del Tar del Lazio, favorevole al reintegro del consigliere di Forza Italia, Angelo Maria Petroni, nel Cda di Viale Mazzini, era nelle ipotesi più probabili. Ma solo la cocciutaggine del ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa (che come titolare del Tesoro è azionista totalitario dell'azienda), ha potuto ingarbugliare la situazione già di per sé critica del servizio pubblico. Certo, anche l'insipienza della maggioranza di centro-sinistra ha fatto il suo danno, non esprimendosi sull'azione di responsabilità verso i 5 consiglieri espressi dalla Cdl, colpevoli di "danno erariale" per aver avallato l'illegittima nomina a direttore generale di Alfredo Mocci. E senza dare una poderosa accelerata alla riforma della "governance" della RAI ( il meccanismo di nomina dei suoi vertici) che staziona in commissione al Senato. Il tutto ha creato quel combinato disposto di confusione politico e amministrativa che ha portato a sconfitta certa l'operato del governo davanti al Tar del Lazio. Per intendersi: quando si parla di cocciutaggine di Padoa Schioppa lo si fa a ragion veduta e dopo una lettura attenta della sentenza del Tar. Che, in buona sostanza, ha sancito che il ministro, pur avendo pieni poteri di revoca del consigliere Petroni, ne ha disposto male, cacciandolo senza quella giusta causa che è alla base di ogni sentenza in favore del lavoratore licenziato. Il ministro, infatti, ha sempre parlato bene di Petroni, tessendone le lodi anche durante una audizione in commissione di Vigilanza. Durante la quale, per giunta, ha persino sostenuto di non avergli mai dato direttive: quindi, Petroni non ha mai disobbedito. Come giustificare, allora, la sua rimozione se Petroni ha sempre fatto bene il suo lavoro? Come sostenere che Fabiano Fabiani è “meglio” di Petroni se quest’ultimo si è sempre comportato, a detta del ministro, in modo specchiato e professionalmente ineccepibile?

La sostituzione è stata voluta solo per ragioni politiche, non previste dal codice civile. Lo schiaffo del Tar, quindi, era inevitabile. Come lo sarà, indubbiamente, quello del Consiglio di Stato a cui, ancora cocciutamente, il governo ha fatto appello, stavolta per prendere tempo, ostentando tuttavia la sicumera della vittoria che starebbe meglio sulla faccia di Berlusconi che su quella di un esecutivo di centro sinistra.
Ora, quindi, il ginepraio è totale. E gli scenari di soluzione possibile che si aprono sono almeno tre: il reintegro del consigliere Petroni al posto di Fabiano Fabiani; l'azione di responsabilità verso tutti i consiglieri della CDL, indagati dai giudici di Roma per il caso Meocci e colpiti da una richiesta di "risarcimento danni" di 50 milioni di euro da parte della Corte dei Conti; lo stralcio della legge di riforma sulle fonti di nomina per il nuovo consiglio RAI e l'organizzazione dei vertici con un amministratore unico.
La strada di far dimettere i 4 consiglieri espressione del centro-sinistra, come viene indicata in parte dagli esponenti della Sinistra della coalizione, sembra più impervia e costringerebbe il governo e la Commissione di Vigilanza a nominare l'intero Cda ancora secondo l’orrenda legge Gasparri. Non solo, ma configurerebbe uno stallo delle attività dell'attuale consiglio Rai impegnato nel difficile compito di portare a casa il nuovo piano editoriale e di attuare il vitale Piano industriale che potrà far uscire Viale Mazzini dalla crisi produttiva, tecnologica e finanziaria in cui versa ormai da cinque anni.
Nonostante le grida festanti dei “tafazziani” della tv di Stato (tutti componenti del partito aziendalista berlusconiano) che hanno applaudito alla decisione del TAR chiedendo le dimissioni immediate di Padoa Schioppa, la lettura delle motivazioni della sentenza è piuttosto chiara e per alcuni aspetti condivisibile. Intanto, non prevede l'immediato reintegro di Petroni nel Cda, (lo posticipa ad una nuova convocazione dell'Assemblea societaria da parte del ministro) né gli concede il diritto di risarcimento dei danni (ovvero "d'immagine, alla persona fisica e esistenziale", recita il dispositivo, come richiesto nell'ultimo ricorso presentato dai suoi legali), né tanto meno inficia o rende nulli tutti gli atti fin qui presi dall'attuale Cda con l'avallo di Fabiani. Il che è un bene, ma certo non serve a risolvere il problema del futuro.
Dati tecnici a parte, il problema Rai è ancora una volta, come sempre, politico. Se anche il centrosinistra, fino ad oggi, non ha voluto prendere di petto la soluzione del problema delle fonti di nomina dei vertici Rai, non è stato solo dovuto alla ormai nota idiosincrasia di Prodi (e dei suoi) per la tv pubblica. Alla base di tutto c’è la paura di mettere mano al conflitto di interessi di Berlusconi, che è il vero nocciolo intorno al quale ruota, ormai da quindici anni, la questione della salvaguardia della Rai. Fintanto che il sistema resta ingessato nel duopolio, con una Rai oppressa da mille catene e tetti pubblicitari, con risorse incerte e controlli blandi sull’evasione del canone, Berlusconi e Mediaset possono tranquillamente imperversare facendo incetta della già magra torta della pubblicità nazionale. Se la Rai fosse messa nelle condizioni di uscire da questa incertezza, diventando un’azienda libera di fare impresa e da conquistare altrettanto liberamente quote di mercato, per Mediaset sarebbero problemi seri. Che nessuno – e colpevolmente anche nel centrosinistra – sembra voler dare al Cavaliere. Piuttosto che scontrarsi con i beni di famiglia di Arcore si è anche disposti, come sta accadendo in questi giorni, a lasciare che la Rai lentamente muoia, così il problema sarebbe risolto alla radice.
Siamo certi che nessuno, almeno in questo esecutivo, vuole prendersi la responsabilità di essere ricordato come colui che ha spento la tv di Stato per togliersi dalle scatole il problema del conflitto di interessi di Berlusconi. Ma è anche vero che il tempo, stavolta, è veramente poco. La Rai non si può permettere di non avviare, al suo interno, una serie di piccole rivoluzioni per continuare a funzionare, seppure a basso regime. Ma se si continua a far parlare le carte nei tribunali amministrativi piuttosto che il buon senso e il rigore politico, da questo ginepraio se ne uscirà con la solita soluzione a metà. La cocciutaggine, in politica, è sempre stata un boomerang, ma qui sembra che sulla Rai Prodi e Padoa Schioppa stiano più impegnati in un esercizio muscolare e machista che in senso di responsabilità politica.
Al momento, a viale Mazzini si attendono gli eventi. Ma stavolta c’è da giurare che, in caso di soluzioni rabberciate, il corpaccione del popolo Rai non esiterà ad alzare la voce. Padoa Schioppa ha già dato più di una prova di non essere adeguato come azionista di maggioranza della principale azienda culturale del Paese, ma d’altra parte niente di meglio si poteva pretendere da chi sostiene che le tasse sono “bellissime” e definisce i giovani precari che non riescono a uscire dalla casa del padre come dei “bamboccioni”. Sarebbe il caso di restituire questi maestri di pensiero a lidi contabili dove possono comunque far danni, ma sempre meno che nella gestione della società civile e delle sue primarie risorse. Con i numeri si può anche fare esercizio di cocciutaggine, per far tornare i conti. Con la Rai è meglio smetterla. Che a forza di brutte figure ci vanno di mezzo i posti di lavoro.