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di Sara Nicoli

E’ abbastanza divertente, in questi giorni, assistere alla battaglia che il quotidiano La Repubblica sta portando avanti per minare alle fondamenta il dialogo tra Veltroni e Berlusconi sulle riforme ma più nel dettaglio sulla legge elettorale. E come, a margine di questo tavolo a due, si stia sbriciolando definitivamente ciò che resta del centrodestra mentre a sinistra si cercano aggregazioni colorate (tutti i colori dell’arcobaleno, appunto) che non promettono nulla di buono per il futuro. In tutto questo scenario il governo è immobile, in attesa che dal tavolo emerga un patto che consenta di guardare un po’ oltre. Non molto, certo, solo un po’. Ma la battaglia che si sta combattendo è ben più aspra e difficile di quello che emerge dalle cronache. E dietro veleni, intercettazioni fatte uscire ad arte e salutari pulizie di Natale ai piani alti della Rai, c’è in gioco il futuro assetto del paese che, tanto per cambiare, passa attraverso la riforma del sistema televisivo. La Rai, certo. Ma anche la conquista di quelle risorse pubblicitarie che l’approvazione del Ddl Gentiloni libererebbe dalle mani di Mediaset, favorendo la crescita delle piccole tv e la creazioni di nuovi potentati via etere: forse proprio quello a cui ambisce l’editore di Repubblica, Carlo De Benedetti. La chiave di lettura di questa vicenda la si può ritrovare in una giornata dello scorso ottobre, quando l’ennesimo momento difficile vissuto al settimo piano di viale Mazzini convinse alcuni consiglieri Rai in quota centrosinistra a far visita all’uomo più fedele del Cavaliere, Fedele Confalonieri, appunto. Il quale fu molto schietto, come è suo costume. Il Cavaliere e il centrodestra (allora ancora unito) avrebbero appoggiato senza alcun problema il varo del ddl Gentiloni, incardinato in commissione al Senato, contenente la sola riforma della goverance Rai. Sull’altro ddl, sempre a nome del ministro delle Comunicazioni e di stanza alla Camera, contenente le norme per il riassetto del sistema tv con netto superamento della legge Gasparri, il Cavaliere ovviamente, non voleva sentir parlare in alcun modo. “Quel disegno di legge - furono più o meno queste le parole di Confalonieri - rappresenterebbe la perdita di almeno un terzo del fatturato di Mediaset. Se volete risolvere il problema Rai dovete dire ai vostri che devono affossare la riforma del sistema”. Un messaggio esplicito che fu riportato senza sbavature ai referenti politici dei consiglieri Rai. Berlusconi, nel frattempo, era impegnato a tentare di comprare alcuni senatori dell’Unione per far cadere il governo Prodi, in modo da eliminare il problema alla radice. E nel Pd, di converso, l’impegno era interamente profuso a sventare l’attacco economico (e non solo) del Cavaliere. Com’è noto, hanno vinto i secondi; il governo ha retto al Senato sulla Finanziaria e il Cavaliere si è ritrovato davanti al suo problema di sempre: come tutelare le sue aziende dall’imminente pericolo di un’accelerazione del ddl Gentiloni alla Camera.

La cronaca dei giorni successivi è nota. Ma è necessario leggerla alla luce della necessità del Cavaliere di sparigliare le carte, anche a costo di distruggere la Cdl, per rendersi unico interlocutore al tavolo delle riforme con il leader del Pd e poter trattare il salvataggio delle sue aziende e una riforma della governance Rai consona al mantenimento dei suoi interessi economici. Dietro le polemiche e i tanti distinguo tecnici - e un po’ noiosi - che stanno accompagnando in questi giorni il dibattito politico sul sistema elettorale da adottare per schivare l’ombra di un referendum che sarebbe devastante per tutta l’attuale classe dirigente politica, aleggia solo ed esclusivamente la necessità di Berlusconi di portare a casa la morte politica del riassetto del sistema tv. In pratica, si sta ripresentando uno scenario che abbiamo già visto con la Bicamerale e con la legge Gasparri. Che sull’onda di un’emergenza – che in questo caso è la ricerca di una nuova legge elettorale - si metterà da parte, ancora una volta, la soluzione di due dei problemi che rappresentano il cancro della nostra democrazia: il riassetto del sistema tv e la conseguente legge sul conflitto d’interessi. Ma stavolta a fermare questo film già visto troppe volte, si è inserito il partito di Repubblica.

Anche in questo caso, una piccola digressione è necessaria per capire a fondo quanto sta avvenendo oggi. Carlo De Benedetti è un fervente sostenitore del Pd. Quando il cantiere del nuovo partito cominciò la sua marcia, l’editore di Repubblica si propose come futura “tessera numero uno” del partito. Come si sa, il Pd ha eliminato il tesseramento, ma questo non ha fatto venir meno il forte sostegno che l’impero mediatico di De Benedetti ha messo a disposizione di Veltroni e della sua creatura politica. Un sostegno ideale, dovuto alla volontà di accantonare i vecchi partiti della sinistra con cui l’editore ha sempre avuto poca simpatia? Macchè. Sostenere il Pd per De Benedetti faceva rima con il via libera al ddl Gentiloni e alla sua possibilità di accrescere ulteriormente il suo impero mediatico attraverso l’apertura di una nuova televisione. E chissà quant’altro. Poi, però, la mossa del Cavaliere ha fatto saltare il gioco delle tre carte.

Ed il rischio concreto è che si ripeta la visione dello stesso film di sempre, ovvero che Veltroni e Berlusconi trovino un accordo sulla legge elettorale e sottoscrivano anche la pietra tombale sul riassetto del sistema tv. De Benedetti l’ha intuito e quindi spara a palle incatenate sul tavolo dell’accordo attraverso le “inchieste” sui gioielli di famiglia Berlusconi di stanza in Rai, ovvero l’ex direttore generale Rai Agostino Saccà (che tanto fu importante nella messa in pratica dell’Editto di Sofia contro Santoro, Biagi e Luttazzi) e Debora Bergamini, ex diletta collaboratrice personale del leader di Arcore assunta al ruolo di dirigente del marketing strategico della Rai e beccata a far pastette proprio con gli uomini Mediaset per consentire a Berlusconi di andare sempre in onda a sei reti unificate.

“Vogliono sabotare il dialogo”, ha condannato ieri Berlusconi. “Quando un organo di stampa interviene sulle conversazioni tra dirigenti Rai e Mediaset assolutamente normali, anzi dovute - ha proseguito - credo ci sia la voglia chiara di sabotare quell'accordo di buonsenso che sta per nascere tra due parti che finora si erano guardate con molta diffidenza. Non è che questa diffidenza sia venuta meno, però c'è da parte di entrambi la volontà di cambiare le cose”. “C'è un’emergenza democratica - ha poi spiegato - e qualcuno ha interesse a sfruttare questa situazione. Siamo un Paese malato in cui non c'è più la libertà, in cui chiunque voglia essere messo sotto ricatto può essere spiato, intercettato in qualunque modo”. Sentir parlare lui di emergenza democratica fa un certo effetto.

Ma non vorremmo che alla fine, per raggiungere un accordo sulla legge elettorale, si scegliesse ancora una volta di dimenticare in un cassetto il riassetto del sistema tv e, soprattutto, la legge sul conflitto d’interessi. L’editore di La Repubblica di sicuro sta facendo un gioco pesante e non certo in nome del bene superiore del Paese, ma almeno qualcuno si sta adoperando perché non finisca sempre allo stesso modo, con le aziende del Cavaliere al sicuro e l’Italia con l’ennesima porcata elettorale da gestire in nome della salvaguardia della sua impresentabile classe politica. La Repubblica gioca sporco, per carità, ma verrebbe da chiedersi chi ha cominciato per primo e continua a dire, spudoratamente, di lavorare “per il bene del paese” senza confessare mai di agire solo per il suo.