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di Fabrizio Casari

Quanto ci vuole per trasformare un Parlamento in una riffa? Tre, massimo quattro ore, al netto del pranzo. In 180 minuti, infatti, la Consulta ha dichiarato ammissibili i quesiti referendari proposti da Segni e Guzzetta, relativi al sistema di voto per Camera e Senato. Quesiti che verranno ora sottoposti al voto popolare. Semmai, pur dovendosi svolgersi in un arco temporale che va dal 15 Aprile al 15 Giugno, si tratterà di vedere se effettivamente il referendum si celebrerà. Perché la vicenda politica assume ora un significato diverso. La Decisione della Corte Costituzionale, frettolosa ed evidentemente già presa in precedenza rispetto alla riunione che ne ha sancito la legittimità, se apparentemente si limita a sancire la legittimità dei quesiti (elemento che era chiamata a determinare) non coglie – o non vuole cogliere – l’impatto sulle conseguenze che l’eventuale vittoria del referendum comporterebbe proprio in termini di costituzionalità. Perché i quesiti approvati non si propongono solo di abolire la legge elettorale vigente, ma prefigurano – attraverso un insieme aberrante di norme - una vera e propria nuova legge elettorale, contravvenendo così de facto al principio per il quale i referendum possono avere solo carattere abrogativo o consultivo, ma non possono – direttamente o surrettiziamente – produrre un sistema di norme che prefigura una legge, compito che solo il Parlamento può esercitare. Il “porcellum” fa schifo, ma la legge elettorale che prevedono Segni e Gazzetta è quanto di più antidemocratico si potesse prefigurare. A ben vedere, infatti, oltre i tecnicismi d’ingegneria elettorale relativi alla spalmatura del premio sul base locale (Senato) o nazionale (Camera), alla possibilità di presentare candidature multiple (cioè in più collegi) o alla soglia di sbarramento per l’accesso al Parlamento (ingombro facile da superare con una dose minima di furbizia), la legge elettorale che dovremmo essere chiamati a votare propone nella sua essenzialità un sistema di voto che permette un premio di maggioranza non più alla coalizione vincente, ma alla singola lista.

Cosa significa concretamente? Che un partito che dovesse raggiungere anche meno del 25 % dei voti (soglia attuale minima, come da Legge Acerbo del periodo fascista) se solo ne avesse uno in più di qualunque altro, si troverebbe in automatico una dote enorme offerta dal premio di maggioranza. Ne deriva quindi che un partito che avesse raccolto anche meno del 25% dei voti, si ritroverebbe con il 51% dei seggi. Il principio democratico ineludibile, quello che recita “una testa, un voto”, andrebbe in soffitta e la stessa competizione elettorale, ora in qualche modo aperta a tutte le forze politiche, risulterebbe nei fatti una competizione tra i due grandi partiti dei rispettivi poli.

Ovvio quindi il perché delle giravolte veltroniane e delle piroette berlusconiane di queste settimane sul dialogo sulla legge elettorale. Sono proprio il Pd e Fi quelli che guadagnano di più dall’eventuale vittoria del referendum Segni-Guzzetta. Perché entrambi sanno che i loro rispettivi partiti, per quanti sforzi facciano, non supereranno mai la soglia del 30-35% dei voti, che fino ad ora non è stata mai sufficiente per governare. Con la legge che propongono i referendari, invece, anche con molti meno voti potrebbero conquistare il governo. Senza bisogno di avere la maggioranza dei voti avrebbero la maggioranza dei seggi.

Non solo. Nemmeno la tanto sbandierata riduzione del numero dei partiti, in virtù di uno sbarramento elettorale altissimo, sarebbe in effetti concretamente realizzabile; anzi, tutto il contrario. Perché? Perché se il Pd o Forza Italia, che sostanzialmente si equivalgono per peso elettorale, vorranno essere sicuri di avere il massimo dei voti, comunque un voto in più del rispettivo competitore, non potranno rinunciare nemmeno alle decine o centinaia di migliaia di questi che qualunque piccolo partito è in grado di spostare. In questa situazione, infatti, anche un partito dell’uno per cento può risultare determinante per avere quella manciata di voti in più dell’avversario.

Dunque, nessuna richiesta da parte di nessuno potrà essere ignorata, pena il rischio di perdere per pochi voti ed andare all’opposizione per cinque lunghi anni solo per aver rifiutato qualche poltrona o qualche scranno. Di più: dal momento che la quantità abnorme di seggi sarà comunque assegnata ad un unico partito, sarà più semplice destinarne una quota a tutti coloro che di quel partito non sono ma che alla sua vittoria contribuiscono. Un mercato delle vacche che, invece di svolgersi alla luce del sole, si svolgerà nelle salette riservate dei mercanti di voti.

Insomma, anche se la soglia di sbarramento fosse quella del 4% alla Camera e dell’8% al Senato, con una estensione concettuale della desistenza elettorale, tutti coloro che concorrerebbero alla vittoria del singolo partito avrebbero il loro gruppo parlamentare. Entrerebbero nella lista elettorale come indipendenti e poi, grazie ai regolamenti parlamentari che lo consentono, fonderebbero il loro gruppo parlamentare uscendo dal partito nel quale si sono candidati. Quindi, senza la riforma dei regolamenti parlamentari, fatta la legge si trova l’inganno. E, si può essere certi, la riforma del regolamento di Camera e Senato non ci sarà, anche considerando che i due rispettivi presidenti quel regolamento lo hanno usato a loro favore recentemente.

Per questo le resistenze dei partitini alle proposte di riforma in senso tedesco del sistema elettorale sono state accanite; preferivano attendere il pronunciamento della Consulta e, comunque, preferiscono il referendum, proprio perché - se questo passasse - il loro potere di ricatto sarebbe esponenzialmente molto più alto di quello attuale, già notevole. Altro che semplificazione, altro che sostanziale bipartitismo: nella sostanza sarebbe il trionfo di chi ha pochi voti, prima nella formazione delle liste, poi nell’assegnazione del premio di maggioranza. Del resto, atteso che Segni e Guzzetta non hanno tratti di genialità istituzionale, si provi ad indovinare il perché nessun altro paese al mondo – nessuno – vota con un sistema elettorale vagamente simile a quello proposto dai referendari.

Ora comincia il count-down. La spada di Damocle dei referendari pende sul collo della stabilità del quadro politico, giacché s’inserisce nella crisi più generale che attraversa il governo e i due schieramenti politici. Il governo in carica, infatti, dopo le dimissioni del Ministro di Giustizia, somiglia sempre più ad un quadro raffigurante gli ultimi giorni di Pompei che vede sommarsi il rischio d’implosione del Pd al crollo ancor prima dell’inizio dei lavori per l’edificazione della cosiddetta Cosa rossa; l’aborto spontaneo della costituente socialista e la minaccia di estinzione del grande centro. Dall’altro lato ( se così si può dire..) la crisi di leadership della destra, la rottura interna ad An e quella tra An e Fi, l’ormai cristallizzata fuga quasi solitaria dell’Udc, fanno dire con ragionevole certezza che se Atene piange, Sparta non ride. Da qui il timore bipartisan di arrivare ad un referendum dove presumibilmente tutti darebbero un appoggio sperando che fallisca. La crisi di governo potrebbe però favorire un ritorno al tavolo di un possibile accordo.

Che potrebbe essere raggiunto anche solo con una norma approvata dal Parlamento che si componesse di poche parole, tipo: “Si abroga la legge elettorale vigente”. L’effetto immediato sarebbe il ritorno in vigenza del “mattarellum” con conseguente invio a ramengo del referendum. Un nuovo governo che potrebbe nascere sulla spinta del nuovo quadro politico che si va raffigurando, potrebbe determinare un accordo tra le forze politiche che produca una nuova legge elettorale, purché ormai, però, tenga conto dei quesiti resi legittimi dalla Consulta. In questo caso, il referendum appena dichiarato legittimo diverrebbe non celebrabile, superato dalla nuova decisione del Parlamento. Sarebbe bene che ciò avvenisse, come sarebbe bene che ci si cominciasse a mobilitare, in nome della democrazia, affinché il referendum, se sarà celebrato, risulti sconfitto.

Ma intanto vedremo cosa farà questo Parlamento di peones e manovratori, uno dei peggiori della storia della Repubblica. L’unica certezza è che nessuna forza politica accede alla discussione sulla riforma elettorale guardando al bene del paese, ma solo a quello delle sue tasche. E’ su questo lo scontro, quello vero e quello apparente. La bozza Bianco, sulla quale i partiti stanno ragionando, è ancora fuffa. Si fa finta di parlare con l’avversario mentre si sa che l’avversario è ben inserito nel proprio schieramento. La situazione, come diceva Flaiano, è grave ma non è seria.