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di Fabrizio Casari

Il Governo Prodi ha concluso nel peggiore dei modi i suoi diciotto mesi di vita. Un malinteso senso della sfida ha portato ieri sera l'ormai ex-premier a contare, voto dopo voto, la sconfitta, così impedendo ogni ipotesi di Prodi-bis o di governo tecnico e in questo modo determinando l'apertura della prossima campagna elettorale. La crisi è opera del ventre molle della coalizione, gli avanzi democristiani a cui troppo spazio è stato dato. Le fibrillazioni della sinistra, nate dal mancato rispetto del programma sottoscritto da tutta l’Unione, sono state, anche nei momenti più aspri, in grado di separare il merito delle singole questioni dalla salvaguardia della maggioranza: atteggiamento che ha determinato, spesso, la tenuta del governo. E’ invece l’accozzaglia dei democristiani di complemento, buoni per tutti i governi e per tutte le coalizioni, ma solo per la politica dettata da Oltretevere, che ha reso impossibile la già difficile navigazione di un governo che, forse, non sarebbe mai dovuto nascere. Perché nessuna coalizione, in nessun Paese, può governare con due voti di scarto. Questa oggettiva difficoltà è stata l’acqua stagnante dove hanno nuotato gli squali affamati del centro, tutti dotati di minuscole rendite elettorali incompatibili con i maiuscoli appetiti. Tra i molteplici danni provocati, con una guerriglia negoziale permanente, il centro ha anche impedito il varo di norme sui diritti civili di cui l’Italia ha bisogno da tempo e, complice una generale inadeguatezza dei partiti al governo, ha reso la stessa manovra economica di riassetto dei conti pubblici un mero esercizio contabile privo di animo riformatore. A fronte di una mancata linea di riforme politiche e sociali, sostituita dalla quotidiana bagarre sull'assetto politicista, quello che doveva essere un governo che rimetteva in piedi l’Italia dopo il quinquennio berlusconiano, è divenuto rapidamente un accanimento terapeutico privo di senso.

Alla crisi si è arrivati anche grazie alla permalosità di Dini e Mastella, che hanno visto, non senza disagi, le rispettive mogli finire nel mirino della giustizia. Ma dev’essere un malinteso senso dell’unità della famiglia, quello che spinge alla vendetta contro il governo in carica. Del resto, quando Mastella parla di Paese ha in mente Ceppaloni e quando Dini parla di conti pubblici lo fa pensando molto a quelli suoi privati. Ora, che le vicende private di Mastella divengano motivo di vita o di morte per un governo legittimamente eletto, la dice lunga su Mastella e sul governo di cui era autorevole membro. Ma va anche detto che se l’evento che ha determinato la crisi dell’esecutivo guidato da Romano Prodi è stato quello relativo alle inchieste sulle mogli e le relative vendette dei mister uno per cento, la valanga che si è abbattuta sul governo si chiama partito democratico.

Il cui leader Veltroni ha pensato, evidentemente, che un anno e mezzo a logorarsi nel suo partito di plastica l’avrebbe ridotto male. Ha dunque deciso di correre contro il governo, prima appoggiando il referendum-truffa di Segni e Guzzetta, poi rifiutando l’accordo sulla riforma elettorale sul sistema tedesco (che avrebbe reso il clima politico enormemente più interessante), quindi sparandola grossa (e falsa), affermando che, quale che fosse stato il sistema elettorale, il Pd sarebbe andato da solo. Ora, se nessuno può giustificare il capo dell’Udeur per aver ridotto a faida familiare la sua vicenda politica, certo è che nemmeno si può pretendere che ci sia la disponibilità a tenere in piedi una coalizione guidata dal partito maggiore che dice che tanto vuole romperla.

A questo punto, dunque, risultando difficile pensare che Veltroni non abbia ponderato le ricadute del suo discorso, bisognerebbe chiedersi il perché lo ha fatto. Pensava di allungare la vita al governo Prodi? Non aveva pensato che, di fronte alla prospettiva di un prossimo abbandono, grazie ad una legge elettorale cucita su misura per Pd e Fi, tutti i piccoli partiti avrebbero preferito tornare subito al voto, visto che solo con il “porcellum” in vigore possono far sopravvivere i loro apparati? O credeva il sindaco che l’intero arco parlamentare del centrosinistra ha come unico scopo quello di preparare la sua incoronazione?

Dall’altra parte dell’emiciclo, il cavaliere nero gongola. Del resto, le sue urla manzoniane per il ricorso al voto sono dettate da due necessità: quella di evitare il varo della legge Gentiloni, e quella di correre alla prossima campagna elettorale. La prima obbligherebbe il suo impero editoriale e televisivo al rispetto di qualche regola che risulterebbe esiziale per la sua posizione dominante, la seconda vede la sua ennesima candidatura possibile solo se ora e subito, dato che né Fini, né Casini, hanno ancora le gambe sufficientemente forti per porsi come alternative alla candidatura del cavaliere di Arcore. Pronto, infatti, Berlusconi ha dichiarato chiuso il dialogo con Veltroni, ha già messo in testa lo scolapasta e corre a fare l’unica cosa che sa fare: il venditore di sogni. Niente di nuovo. Soldi e bugie, la sua quintessenza.

Ora è tutto in mano di Napolitano che, Costituzione alla mano, cercherà la soluzione alla crisi. In questo senso, con la tignosa seduta al Senato, Prodi ha bruciato i ponti alle sue spalle. E’ già un ex, solo con molta voglia di vendetta. Chi invece non trarrà niente di buono da questa crisi sarà proprio il Pd, che rischia anzi d’implodere alla vista della prossima vittoria, ampia, della destra. Che è, né più né meno, la personificazione dell’incubo peggiore. Questo scombinato Paese non ne aveva bisogno. Chi oggi festeggia per la caduta del governo, avrà modo di ricredersi presto.