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di Mariavittoria Orsolato


Che Umberto Bossi non fosse pronto alla morte ove l’Italia chiamasse lo sapevamo già da un pezzo. Sapevamo anche che il Senatùr quando va in Veneto ad arringare i suoi serenissimi padani, dà il meglio di sé: come quando, col suo immancabile fazzoletto verde, chiese ai fedelissimi del Carroccio di imbracciare fucili, schioppi e scacciacani per una versione riveduta e corretta della marcia su Roma o come quella volta a Venezia - c’è da dire, memorabile - in cui apostrofò una signora che aveva coraggiosamente esposto il tricolore, dicendole che con quella bandiera ci si poteva pure pulire il culo. E scusate la volgarità, ma è di Bossi che stiamo parlando e non si può andare fuori contesto. La scorsa domenica le ire e le frustrazioni secessioniste del leader della Lega e - non dimentichiamolo - Ministro delle Riforme, sono state monopolizzate dall’inno di Mameli: durante l’annuale congresso della Liga Veneta, tenutosi a Padova, il Bossi Furioso se l’è presa con il settimo verso del nostro - ammettiamolo - sgangherato inno nazionale alzando elegantemente il dito medio e aggiungendo: “Dice che siamo schiavi di Roma, toh!”. Peccato che nell’inno nazionale l’unica schiava di Roma (ladrona?) fosse la vittoria, ma nessuno degli scalmanati presenti in sala gliel’ha fatto notare.


“A me l'Inno di Mameli non è mai piaciuto, fin dai tempi della scuola, preferisco la canzone del Piave, quella che fa: "Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio...".Quella è una canzone di popolo, è più vicina alla Marsigliese”. Questa la giustificazione del Ministro che, non contento aggiunge: “Quella parola, schiava, non la sopporto. Noi siamo per abolirla, la schiavitù, in ogni sua accezione. E così ho anche detto che il nord, la Lombardia, il Veneto mica possono essere schiavi di qualcuno”. Ci mancherebbe Senatùr, ce lo ricordiamo tutti che la Lega e i leghisti ce l’han duro!

Probabilmente non avvedutosi dell’ennesimo vilipendio, Bossi si è poi lanciato in un’invettiva contro gli insegnati meridionali, rei di aver occupato le cattedre padane e di aver compromesso il lignaggio e la buena èducatiòn dei rampolli leghisti, disorientati probabilmente dall’accento. La folla padovana in tripudio si spertica le mani dagli applausi e per l’influente alleato del Cavaliere questa è un’ulteriore conferma che la strada del federalismo - la seccessione (si, i padani la scrivono così) è ormai un sogno impossibile anche per gli irriducibili - è quella giusta da imbroccare.

Nel Palazzo però non la pensano allo stesso modo. Un Fini trasecolato ha richiamato all’ordine il Ministro leghista, ricordandogli i suoi obblighi di promozione istituzionale e invitandolo a non urtare il sentimento nazionale. Sulla stessa linea il presidente del Senato Renato (detto anche Lodo) Schifani che, aprendo le consultazioni a Palazzo Madama, non si è lasciato sfuggire l’occasione di bacchettare l’alleato recalcitrante e ha annunciato l’inoltro di una richiesta formale di chiarimento al Governo.

Berlusconi invece fa - e gli riesce molto bene – lo gnorri, conscio che quell’8,3% delle preferenze portato in dono dagli eredi di Alberto da Giussano val bene qualche sparata antinazionale: in una telefonata avvenuta la sera stessa del “fattaccio” i due si sarebbero riconfermati fedeltà, lontani dalle polemiche e dal 1994, anno in cui lo sgambetto della Lega costò caro al Governo Berlusconi atto primo.

Da sempre la Lega Nord per l’indipendenza della Padania (questa ahinoi la dicitura ufficiale del partito) è infatti la spada di Damocle delle coalizioni per/con/della Libertà: effettivamente decisiva nelle tornate elettorali e decisamente fuori luogo nei lavori di Governo, gli alleati la temono ma allo stesso tempo non possono farne a meno. Bossi, col suo linguaggio da osteria e le sue anacronistiche camicie verdi, ha capito che basta far leva incessantemente su un paio di punti - vedi i famosi schei che Roma ladrona popperebbe a profusione – per attirarsi le simpatie di un’intera regione geografica. A modo suo ha fatto leva sull’identità nazionale di un Paese ancora regionale e, seppur farcendo la sua chimera secessionista con improbabili rituali e strafalcioni politico/linguistici di ogni genere e sorta, ha creato a sua immagine un movimento che piace a molti perché fondamentalmente populista, perché conservatore ma anche (Veltroni perdoni la citazione involontaria) rivoluzionario.

Un asso che, calato al momento giusto, può sovvertire le sorti della partita, nel bene o nel male. Perché Bossi e la sua compagine sanno che l’elettorato è un animale semplice e che gli alleati - sull’orlo del precipizio dei numeri – lo sono ancora di più. Chiamatelo pazzo se volete, ma non scemo. Il Senatùr con il suo diploma della scuola Radio Elettra e le sue piazzate sbiascicate sa il fatto suo.