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di Fabrizio Casari

Sono belli gli studenti, bellissimi. Ci piacciono nelle foto festanti e ci piacciono nelle aule, anche quando sono occupate. Perché nelle aule s’insegna, a volte bene, ma quando sono occupate s’impara, a volte molto. E ci piacciono gli studenti anche quando li vediamo stampati sotto ai palazzi del potere a ricordargli che fessi non li fanno, che se ora votano i parlamentari, poi saranno gli studenti a votare. Per tentare di entrare nelle sedi delle (loro) Istituzioni si scontrano con la polizia, perché solo alcune giovani possono entrare scortate e nottetempo. Ci piace vederli, perché abbiamo la sensazione, ogni volta, che la ribellione precedente, sconfitta o no, non è stata l’ultima.

Ci piacciono perché sono la quota generazionale d’indisponibilità al tacito consenso. Perché non c’è stata mai evoluzione sociale che non sia nata da una ribellione e non c’è stata mai una ribellione che non sia nata dagli studenti. Ci piacciono perché sono coloro che non hanno le spalle curve e lo sguardo basso, che cercano di scegliersi la vita, provando a cambiare quello che della loro non gli piace.

Che conoscono la solidarietà dei tanti, che usano più il Noi che l’Io. Che sanno distinguere tra destra e sinistra senza bisogno di saperlo da Fini e Bersani. Perché imparano in fretta una legge fondamentale: sarai quello che saprai e avrai quello che strapperai. E ci piacciono, gli studenti, anche perché li compatiamo, essendo la generazione che dovrà caricarsi sulle spalle i nostri fallimenti. Ci piacciono perché siamo padri e madri.

L’Italia, in 150 anni di storia ha avuto governi raramente all’altezza delle necessità di crescita e sviluppo necessari per il paese. Sono diverse le specializzazioni tragicomiche dei dicasteri italiani; la versione tragica è certamente quella del Ministero dell’Interno, quella comica è stata di quello della Cultura. Ma quella più deleteria, storicamente, è stata la poltrona del Ministero dell’Istruzione. Uno di quelli che negli ultimi anni ha cambiato denominazione, provvedendo tra l’altro, in un sommo atto di coerenza, all’abolizione dell’aggettivo “Pubblica”.

Quasi fosse una sorta di outing istituzionale, un’ammissione di colpa politica, era in effetti un disegno strategico. La scuola pubblica viene spolpata ogni anno per stornare fondi verso quella privata, in spregio della Costituzione. Privata ormai, infatti, è la spesa destinata dai governi succedutisi negli ultimi 15 anni all’istruzione; di pubblico resta solo la fattura da pagare, tutta in capo alla fiscalità generale, cioè ai contribuenti.

Precisamente 526 milioni di euro, mica bruscolini. Per giunta, 245 in più di quelli già assegnati precedentemente dal governo del fare (cassa). Non a caso è stata messa lì un soggetto come Maria Stella Gelmini. La Gelmini è il peggior Ministro dell’istruzione che l’Italia abbia mai avuto. La più ideologicamente invasata, la meno capace di concepire un progetto sistemico, la meno dotata di spessore culturale e capacità politica. La persona meno qualificata sotto ogni profilo della sgangherata compagine governativa in servizio presso la real casa.

Un errore quello di credere che sia solo impotente davanti alle richieste di tagli di Tremonti, cosa comunque possibile. La verità è che la Gelmini i tagli li condivide; anzi, fosse per lei, ne farebbe di più. Del resto, per quale motivo investire sulla qualità (e persino sull’esistenza stessa) della formazione culturale quando, come lei ha dimostrato, basta cercare qualche scappatoia per acquisire i titoli in modo più facile? La logica è chiara: la scuola pubblica, responsabile dell’ignominiosa scolarizzazione di massa, é un tipo di retrovirus che permette ad un ragazzo di ceto basso di studiare e formarsi per diventare, forse, un professionista di ceto alto. Uno scandalo inaccettabile.

Perché istruire milioni di giovani quando alle nostre imprese ne servono poche decine di migliaia? E perché, quindi, non lasciarne milioni in abbandono scolastico, sì da ottenere un bell’esercito di riserva con braccia a basso costo, senza così doverle importare da fuori? Cosa c’è di più utile che tenerli lontano dalla cultura, (che fa perdere inesorabilmente copie a Chi e a Novella 2000 e riduce gli ascolti del Grande Fratello) facendo in modo che non possano sognare un reddito, al massimo un salario basso e precario?

La privatizzazione della cultura, come l’azzeramento della scuola pubblica, sono fondamenta strutturali della società divisa in classi. Sono la matita con cui disegnare presente e futuro di un modello che nella guerra al lavoro e all’istruzione, nell’odio verso il sapere critico e collettivo, esprime l’odio verso l’emancipazione sociale, verso la riduzione della voragine tra chi la ricchezza la costruisce e poi ne paga i costi e chi, invece, ci si arricchisce. Bisogna dotarsi dei temperini giusti. Si trovano nelle aule ancora disponibili.