di Rosa Ana De Santis

La Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, con giudizio ancora non definitivo espresso il 28 agosto, ha bocciato un intero articolo della legge 40 sulla fecondazione assistita. E forse ne ha compromesso il pilastro fondante, già ripetutamente colpito da altri ricorsi, come quello del 2010 del tribunale di Salerno. Questa volta il caso riguarda una coppia italiana fertile, ma portatrice di fibrosi cistica e del divieto loro imposto di effettuare la diagnosi pre-impianto sugli embrioni. Il governo italiano dovrà, tanto per cominciare, risarcire la coppia con 15 mila euro più le spese legali.

La forza di questa sonora bocciatura è nell’evidenza della contraddizione e dell’ incoerenza che questa leggina ha con il resto del sistema legislativo e nella violazione che essa produce al diritto del rispetto della propria vita personale e familiare. Le motivazioni in base alle quali, si vieta la diagnosi sugli embrioni non valgono, stando alla legge positiva, quando si arriva alla legge 194 e all’interruzione volontaria di gravidanza.

Poiché l’embrione è sempre lo stesso, anzi semmai è in uno stadio più evoluto quando si decide per l’aborto, è legittimo chiedersi quale interpretazione morale e normativa la legge italiana abbia della questione. Perché è l’univocità che distingue un codice di leggi dal menù del giorno.

Unica deroga al veto della diagnosi pre impianto,  nella legge 40, è prevista quando l’uomo sia portatore di malattie sessualmente trasmissibili, come a voler certificare un canone di malattie giuste (le famosi croci della fede) e di altre (che guarda caso hanno a che fare con l’atto sessuale) più sconvenienti. Sembra un libro uscito dai roghi medievali e invece è la nostra legge.

La protagonista di questa storia arrivata alla Corte dei diritti dell’uomo è quella di una mamma che ha già una bambina affetta dalla malattia e che ha affrontato successivamente un aborto terapeutico, dopo esser rimasta incinta e aver scoperto che anche il secondo feto aveva ereditato la fibrosi cistica. Sono la scienza e la medicina che le hanno permesso di scoprire di essere portatrice come suo marito di questa sindrome genetica, ed è la scienza che le consentirebbe di difendere i suoi prossimi figli da una malattia purtroppo incurabile.

E’ la legge 40 però che le nega questo diritto, che le proibisce di usare la conoscenza acquisita e soprattutto, ipocritamente, che le consente di abortire feti post-amniocentesi piuttosto che selezionare (per salute e non per estetica) embrioni appena fecondati.

A difendere la legge 40 si schierano coloro che l’hanno spacciata per legge liberale e laica. La Binetti d’occasione biasima Strasburgo e si preoccupa dell’utopia, contaminata di spettri nazisti, della civiltà dei sani. Come se fosse un peccato e non un legittimo anelito e compito della ragione umana desiderare di utilizzare la scienza per non ammalarsi e per vivere meglio. Ma non è quello che fa ogni mamma per i propri figli e ogni persona?

C’è chi vede in questa sentenza la strada per ripensare totalmente una legge crudele e oscurantista, come la definisce Niki Vendola o l’on. Coccia, portavoce dei Centri di Fecondazione assistita in Italia. C’è chi, invece, come la deputata del Pdl Eugenia Roccella, si convince sempre di più di quanto la legge 40 sia ben fatta. “Più passa il tempo, più me ne convinco” ha replicato a Strasburgo.

Nessuno crede che non abbia capito la bacchettata dell’Europa. E’ che non c’è nemmeno l’ombra dell’incoerenza con la legge 194 e i suoi principi, per quanti hanno scritto la legge 40 sperando di cancellare quella sul diritto all’aborto. Il governo, con perfetto tempismo rispetto alle dichiarazioni della CEI contro Strasburgo, annuncia ricorso. Questa volta, a quanto pare, la via indicata dall’Europa, cui sempre i nostri professori guardano con pedissequo rispetto, non è il dogma vincente.

 

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