Stampa

E meno male che avevamo un accordo con i libici. Che Minniti, arguto ministro di polizia, aveva trovato la soluzione al dramma degli sbarchi. L’ultima delle tragedie annunciate, invece, conta oltre 50 nuovi morti in mare e segue di pochi giorni un'altra dove il saldo è stato di 26 donne. Colpa delle milizie libiche, un’organizzazione criminale alla quale il governo Gentiloni ha dato legittimità e che si ritrovano così sostenute in qualche modo anche dal governo italiano, nell’illusione che risolvano il problema in vece nostra.

 

 

L’accordo si fondava su questo: impedire la partenza dei migranti in cambio di denaro e mezzi. Ovvero, la repressione affidata in esterna per motivi di politica interna. Per carità, più che una soluzione era una benda, visto che serviva solo a non farci vedere ciò che tutti sanno.  E cioè che le milizie libiche agli ordini di Al Sarraj sono impegnate soprattutto nel depredare, violentare, torturare ed uccidere i migranti. Ci sono indagini che li legano anche alla tratta delle persone e al traffico d'organi. Non a caso i migranti salvati dai libici, alla vista della nave SeaWatch, si sono tuffati in mare cercando di raggiungerla. Sapevano cosa li aspettava per essere fuggiti dai lager delle milizie.

 

Non è un segreto per nessuno cosa succeda in Libia ai migranti. Legittimare le milizie libiche in cambio del fatto che riducono la pressione politica e mediatica sull'accoglienza che dovremmo fornire, è cinico e ipocrita. Abbiamo invece sacrificato anche la decenza di nazione per rincorrere la destra sulla concezione securitaria dell’immigrazione. Privi di cultura politica, di capacità di entrare nel merito di questioni che sono un pezzo fondamentale del secolo appena iniziato e che ci vede solo nel ruolo di coprotagonisti.

 

Il fenomeno migratorio, infatti, non originandosi in Italia e non avendo nell’Italia la sua unica ricaduta, non può essere solo dall’Italia compiutamente risolto. Certo, noi per posizione geografica siamo primo approdo, terra di frontiera tra due continenti e luogo d’intersezione fra tre religioni. E’ la nostra fortuna e la nostra dannazione eterna insieme, ma non possiamo pensare di essere il centro delle migrazioni (perché non lo siamo) né il luogo dove interromperle (perché il mondo va e non necessariamente dove vogliamo noi).

 

Le migrazioni ci sono sempre state nella storia degli uomini, fatta anche di grandi spostamenti di intere popolazioni o parti di esse, interne ai rispettivi continenti o  regioni ma anche capaci di solcare mari e cambiare continenti. Le grandi migrazioni che in questa epoca coinvolgono davvero milioni di persone, non sono infatti internazionali. Sono interne alla stessa area geografica, spesso agli stessi  paesi, che vedono lo spostamento da Nord a Sud o da Est a Ovest in ragione di innumerevoli motivi: ambientali, lavorativi, familiari, di sicurezza.

 

I migranti non sono solo un fenomeno di questo inizio secolo ma certo la globalizzazione lanciata a velocità folle su un mondo sconnesso ne ha aumentato intensità ed ampiezza. Siamo 7, 4 miliardi di persone sulla terra e nel 2050 saremo 9 miliardi. Semmai allora dovremmo chiederci: come stiamo? Presto detto: 795 milioni di persone soffrono la fame, 817 milioni non riescono a fare tre pasti al giorno e 750 milioni non hanno accesso all’acqua, causa deforestazione, desertificazione, restringimento dei bacini idrici, guerre e sottosviluppo. Il 22 per cento della popolazione mondiale consuma l’81% delle risorse disponibili e, non per caso, i consumatori siamo noi ma le risorse sono le loro.

 

Un quarto della popolazione mondiale vive in contesti fragili, primo effetto delle crisi sistemiche. Le migrazioni e l’insicurezza, infatti, sono fenomeni direttamente interconnessi. Riguardano il mondo intero, che spinge persone a scegliere di sradicarsi dalle loro terre, dalle loro case, dalle loro famiglie; che li spinge a rischiare di morire piuttosto che morire certamente. Non c’è desiderio di turismo: si prova a salvarsi la vita.

 

Noi italiani dovremmo saperlo meglio di tutti, perché prima e più di molti altri, alla ricerca di lavoro e cibo abbiamo spostato decine di milioni di migranti, che hanno costruito lo sviluppo di metà del Sud America e dell’Australia, di parte degli States e del Canada e di pezzi importanti di Europa. Al punto che sono 60 milioni le persone di origine italiana che abitano il mondo fuori dall’Italia, tanti quanti coloro che in Italia vivono. Però ci preoccupiamo per alcune decine di migliaia di migranti che sbarcano da noi.

 

Ai migranti economici si aggiungono i profughi, parte importante numericamente e specifica politicamente delle ondate umane che, nel caso, sono direttamente prodotto nostro e delle nostre sporche guerre, perché l’instabilità politica e militare dell’Africa è determinata dagli interessi geopolitici ed economici dell’Occidente.

Nelle guerre in Afghanistan e Irak abbiamo procurato oltre un milione e mezzo di morti ed una cifra vicina si registra nei conflitti siriano e libico. A questa carneficina vanno aggiunte le vittime delle guerre nello Yemen, in Mali, in Somalia. Sono guerre volute da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna per ragioni di dominio geopolitico e di controllo delle risorse naturali, prima fra tutte il petrolio.

 

Finanziamo regimi sanguinari ai quali vendiamo armi in cambio di materie prime, terre e royalties per le operazioni estrattive. Le commesse militari ci fanno gola, le mazzette per le materie prime ci rendono corrotti anche in esterna. Guadagniamo denaro dalla vendita delle armi che distruggono e guadagniamo anche con le ricostruzioni che alle guerre fanno inevitabilmente seguito. Non importa se paesi divenuti cimiteri possono pagare; utilizziamo gli organismi internazionali che trasformeranno il nostro ricco business in debito letale per i paesi che diventano vittime due volte, prima della distruzione e poi della ricostruzione. Con quel debito - impagabile - continueremo a fare ciò che non abbiamo finito con la guerra: prenderci tutto.

 

Perché dove non interveniamo con le guerra usiamo l’economia, sviluppando un mondo diseguale, che al Sud sottrae possibilità, saccheggia risorse e depreda i sottosuoli. Spargiamo miseria per concepire profitti e spalmiamo disperazione e arretratezza per poi intervenire agevolmente a rastrellare. Esportiamo guerre e creiamo nuovi profughi. Insomma ci diamo da fare: per affrontare la carenza di cibo, eliminiamo i commensali.

 

La volontà predatoria occidentale produce però i cosiddetti “danni collaterali” e le ricadute migratorie che determina a consuntivo. Va di moda dire “aiutiamoli a casa loro”; slogan idiota, è proprio a casa loro che li sterminiamo in vari modi. Interi paesi distrutti e milioni di morti, con sopravvissuti che non hanno più un “dove”, un “con chi”, un “perché” vivere. Fuggire da luoghi divenuti spettrali, terre di conquista solo per avvoltoi, diventa l’unica via d’uscita. E’ bene allora sapere che quei migranti che ci troviamo sulle nostre coste, in quei barconi, in buona parte ce li abbiamo messi noi con le nostre guerre e i nostri saccheggi.

 

Così si crea un esercito di braccia di riserva disposte a tutto in cambio di niente che verranno da noi a cercare di sopravviver. A costoro offriamo a volte assistenza, più raramente accoglienza, quasi mai integrazione. Privi di ogni programmazione e politiche d’inserimento, lasciamo che a sbrigare il lavoro sporco siano le nostre periferie. In un clima darwiniano favoriamo la guerra tra poveri e meno poveri. Il degrado delle nostre aree periferiche, che anche senza migranti sarebbero insopportabili, sotto un ulteriore stress diventa insostenibile e alimenta il razzismo di tutti, soprattutto i più poveri e più ingenui.

 

E’ ovvio che non possiamo spalancare il paese a milioni di persone, c’è un problema enorme di tenuta del quadro sociale ed economico, culturale persino; di equilibrio territoriale e di capacità di accoglienza in un paese con risorse già al lumicino. Ma proprio per questo sarebbe necessario dotarsi di una politica che abbia senso, che tenga insieme ragione ed interesse nazionale. Che affronti, Europa o no, la questione immigrazione con politiche migratorie e non con rifiuti velleitari. Invece, impauriti da ogni lingua ed ogni colore, nel timore di dover ridiscutere l’equilibrio nella gestione delle risorse, chiamiamo “invasioni” le migrazioni e “controllo” le politiche di rifiuto totale.

 

I governi che si susseguono si guardano bene dall’affrontare il problema, dicono le stesse parole ed hanno le stesse ricette: affermano di voler “governare il fenomeno migratorio” ma poi rifinanziano le nostre missioni militari, impediscono le politiche dell’immigrazione, aboliscono le quote, rifiutano la programmazione dei flussi e bloccano i visti. Un riflesso pavloviano che rende così inevitabile l’arrivo dei clandestini, dal momento che arrivare legalmente è vietato. In assenza di una politica migratoria a loro non resterà che fuggire in cerca di sopravvivenza e noi, con la bava alla bocca e il sangue agli occhi, difenderemo l’indifendibile e continueremo ad ascoltare il refrain idiota che ripete “aiutiamoli a casa loro”.