Stampa

Lo scenario post voto consegna un quadro politico di difficile lettura. Nella ricerca più o meno affannosa di una maggioranza parlamentare, si assiste ad uno sfoggio di fantasia che s’infrange però sul muro che separa le compatibilità politiche e i numeri. Né la Lega né i 5 Stelle possono immaginare percorsi autosufficienti, il numero di seggi che mancherebbero è tale da non poter essere colmata né con la campagna acquisti per la destra, né per ipotetici transfert di parlamentari dal PD per i penta stellati.

 

 

La questione, ovviamente, è nelle mani del Quirinale, percorso obbligato previsto dalle procedure costituzionali. Le ormai prossime consultazioni non potranno però, almeno al primo giro, che ribadire il quadro esistente: generica teoriche disponibilità e concreto esercizio di veti incrociati.

 

Il che è perfettamente logico, se parliamo di formazione di un governo di legislatura, dal momento che sotto il profilo dell’orientamento politico non sono assemblabili partiti che, per storia, programmi e prospettive, indicano cammini diversi. Sebbene infatti analisti analfabeti parlino di maggioranza parlamentare di euroscettici, la richiesta di un modello di Europa diversa che esprimono i 5 Stelle, non può essere assimilata con il sovranismo antieuropeo dai tratti razzista della Lega e della sua ruota di scorta, ovvero Fratelli d’Italia. Ancor meno fattibile appare un’alleanza con il centrosinistra da parte dei penta stellati, vuoi per il veto di Renzi, vuoi perché nemmeno in questo caso i rispettivi programmi politici potrebbero trovare una minima amalgama.

 

Ma proprio perché le maggioranze si formano in Parlamento, Mattarella dispone di armi efficaci. In assenza di un accordo politico per governare, il Capo dello Stato potrebbe mettere sul tavolo una proposta secca: la soluzione politica dell’empasse può essere risolta solo con un ritorno al voto. Affinché questo abbia senso, va cambiata la legge elettorale, eredità velenosa del renzismo concepita per ritagliarsi un ruolo determinante nell’accordo con Forza Italia in vista della debacle politico-elettorale.

 

Dunque, potrebbe proporre Mattarella, si deve trovare un accordo che faccia nascere un governo di scopo, che gestisca l’ordinaria amministrazione mentre il Parlamento vota una nuova legge elettorale che cancelli il mostriciattolo vigente. In assenza di accordo su questo, vista l’impossibilità di raggiungere un’intesa che dia i natali al nuovo governo, il Quirinale può proporre un governo tecnico con le finalità appena descritte. Se questo non trovasse il consenso necessario, il decreto di scioglimento delle Camere sarebbe inevitabile e si tornerebbe al voto, anche con questo sistema elettorale.

 

A questo punto ogni forza politica dovrebbe farsi due conti. Intanto proprio perché le maggioranze si formano in Parlamento, sarà bene tener conto del fatto che i parlamentari appena eletti, di slancio o ripescati, non hanno comprensibilmente nessuna intenzione di tornare a casa per poi magari, non tutti, forse, ricominciare un’altra campagna elettorale. Costo della stessa e fatica necessaria non sono uno stimolo in questa direzione. Non sarebbero forse sufficienti ma nemmeno pochi i cosiddetti “responsabili”.

 

Dunque, un eventuale No da parte dei partiti farà bene a misurare questa incognita, che ha il suo peso sebbene non sia sbocco certo. L’accordo politico non è comunque privo di rischi. Il Movimento 5 Stelle sta operando con intelligenza politica. Dichiara una disponibilità al confronto per misurare i termini di una possibile intesa assolvendo così ad un compito istituzionalmente responsabile. Allo stesso tempo, però, ricorda che non partecipa ad aste, perché questo snaturerebbe il suo cammino e le ricadute negative in chiave elettorale non tarderebbero ad arrivare.

 

Di Maio ha vinto perché gli italiani che non ne possono più di veder trasformare la propria esistenza in un calvario senza fine hanno deciso di fidarsi di un progetto nuovo. Che, pur con le sue contraddizioni e approssimazioni, appare se non altro una rottura con il sistema che ha portato l’Italia alle condizioni socioeconomiche di circa cinquant’anni fa. E’ un urlo quel voto e rende sordi quelli che non vogliono ascoltarlo. Quel che è certo è che una dimostrazione di responsabilità istituzionale, unita ad una altrettanta fermezza su termini e tempi stretti dell’operazione, in un eventuale ritorno alle urne porterebbe i suoi consensi ancora più in alto.

 

La Lega, dal canto suo, è ben consapevole di aver raggiunto il risultato massimo e, per questo, proverà in ogni modo a capitalizzare. Ma per accettare di mettere a disposizione i suoi voti per un governo senza Salvini dovrebbe avere la ferrea certezza di chiudere l’operazione in tempi brevi, tre mesi al massimo. Altrimenti preferirà far finta di conservare la sua “purezza” e tirarsi indietro dall’operazione chiedendo il voto. In fondo, non è detto che tornare alle urne a breve risulti un handicap: la probabile uscita di scena di Berlusconi nella prossima consultazione potrebbe ulteriormente premiare Salvini.

 

Quanto al PD, il suo cupio dissolvi non consente rotture al suo interno. Il dominio assoluto di Renzi sui parlamentari appena eletti e sugli organi dirigenti del partito, esclude ogni ipotesi di ragionamento sulle prospettive politiche e pone la questione sul piano inclinato di un gruppo di potere che vede nella vendetta contro tutti la sua ragione comune.

 

Ma non è affatto detto che il PD sia contrario ad un governo tecnico, dal momento che la banda toscana che lo guida ha bisogno di alcuni mesi per costruire il nuovo soggetto politico-personale che Renzi accarezza. Si può ritenere che sogni Macron e si ritroverà Segni, ma è pur vero che l’unica certezza che alberga nel PD è che un eventuale ritorno alle urne a breve, con ancora Renzi e i suoi scherani alla guida, comporterebbe l’estinzione elettorale.

 

Liberi e Uguali, che ha l’ossequio alle istituzioni nel suo DNA, non risparmierebbe cero i suoi voti al governo tecnico; anche loro hanno bisogno di tempo per elaborare la scelta tra sciogliersi o resistere.

 

Prima tappa, per misurare l’efficacia dell’azione del Quirinale, il 23 Marzo, quando Camera e Senato dovranno votare i rispettivi presidenti. Lì si misurerà l’esatta praticabilità di un accordo che porti a un governo di scopo, oppure la distanza che separa dalla data del nuovo voto.