Stampa

Lo scenario post voto resta complicato. Al centro di ogni ipotesi di accordo vi è il cupio dissolvi del PD, la cui Direzione prenderà atto oggi delle dimissioni finte di Renzi e darà inizio alla resa dei conti tra renziani e non renziani per la prossima segreteria, con il neoacquisto Calenda pronto a saltare sulla giugulare del gattone ferito. Ma non è certo con il cambio del segretario che il PD potrà uscire dalla sua crisi terminale.

 

Intanto perché i nomi che circolano – da Del Rio a Zingaretti – non fanno presagire una leadership carismatica, che sappia ridare smalto al progetto e, nel contempo, tenere il partito al riparo dalle manovre del ducetto di Rignano. Poi perché sono nomi che si muovono in sostanziale continuità con le politiche del PD dal 2011 ad oggi, non rappresentano certo il segnale forte di una inversione di rotta.

 

Comunque l’uscita di Renzi non potrà che far bene ad un partito schiantato. Lascia dietro di se milioni di elettori persi, un partito ridotto a poche migliaia di iscritti, la perdita di ogni riferimento sociale. Municipali, provinciali, regionali, parlamentari e referendum: ha perso ovunque e con percentuali ogni volta più umilianti, trascinando il partito in un tunnel senza luce.

 

 

Nel susseguirsi di disfatte elettorali Renzi ha avuto un peso decisivo. Mai, nella storia della Repubblica, si era visto il capo di un partito divenire, nel volgere di 20 mesi, uno degli uomini più detestati d’Italia. Si percepisce infatti un fastidio diffuso, persino epidermico, per la sua stessa presenza fisica, per l’arroganza e l’incompetenza, le bugie e i raggiri operati contro ogni segmento della società italiana. Il disprezzo per le regole democratiche e per i corpi intermedi e le loro funzioni, hanno determinato la parabola di un ometto immaginatosi Re e della sua corte dei miracoli, che da tre paesini della Toscana hanno pensato di poter calare sull’Italia intera.

 

Tutto questo, le bugie e le reiterate finte dimissioni, hanno costruito e rafforzato sempre più il disprezzo degli italiani nei suoi confronti e in quelli del suo partito, rappresentato da mezze figurine avvezze solo al torbido mestare. Improvvisatisi dirigenti che, alla sua ombra, hanno assunto identica arroganza e protervia. Inutili persino nel consigliare al feudatario una sua sana assenza come male necessario ad evitare ogni disfatta.

 

La segreteria Renzi si è caratterizzata per l’assenza totale di cultura politica, sostituita con una retorica finta da venditore di auto usate; per una gestione del partito autoritaria ma non autorevole e per uno stile fatto soprattutto di mancanza di stile. Si è delineata come un grumo di potere all’assalto del Paese con tanto di gossip strapaesano: gli affari di famiglia con padri faccendieri e banchieri. Tutto ciò è stato fonte di imbarazzo per l’evidente commistione tra affari privati e pubblici, versione decisamente distorta del “privato è politico”. Lo stile da strapaese con cui hanno operato corrisponde allo spessore ed allo stile dei “personaggetti”, ma ha gettato uno schizzo di fango permanente, un insulto alla decenza politica ed etica che si richiede ad un partito di centrosinistra.

 

Dunque l’uscita di Renzi e la non allocazione dei suoi sottopancia è pre-condizione di un recupero del partito democratico. Ma non c’è solo Renzi, perché poi, insieme all’insopportabilità di un gruppo dirigente, quello che le urne hanno dichiarato è l’inutilità storica di un partito come il PD. Fu un errore la sua stessa nascita, fusione a freddo di laboratorio concepita dall’ulivismo di Prodi e Veltroni, che per far assumere una dimensione partitica al centrosinistra, eliminò ogni scoria della cultura di provenienza PCI, e consegnò - con il tacere dei suoi eredi - la sinistra ai residui democristiani.

 

Il veltronismo, l’idea del partito liquido e interclassista, minò in radice l’anima popolare di un progetto che doveva mantenere le sue radici nella storia della sinistra. Quello che doveva essere miscela di due delle grandi culture italiane - cattolica e socialista - si rivelò presto la somma di due sconfitte pensando di trovare una vittoria. Perdita di riferimenti culturali e ideali, sganciamento totale dalle istanze popolari e rilettura in chiave modernista e liberista del progetto di società, sono state la sostanza del progetto, divenuto presto la ripetizione del verbo delle elites e la difesa strenua dell’establishment. Da questi ha cercato legittimazione ed al loro servizio ha operato, con una poderosa accelerazione intervenuta sì con Renzi, ma con gravissime responsabilità anche nelle scelte compiute in precedenza.

 

Ci si è innamorati del capitalismo quando esso aveva già assunto la forma escludente del monetarismo, il volto peggiore della sua dottrina socio-economica. Si è letto nelle diseguaglianze un danno collaterale giustificabile per un modello di società capitalistica virtuosa, ma che ha invece ampliato la forbice sociale oltre ogni limite senza nemmeno raggiungere un assestamento decente del bilancio pubblico. Si doveva intervenire a sostegno delle politiche di perequazione, muovere la leva della responsabilità pubblica della politica, si è invece aderito all’ultimo assalto alla coesione sociale prima e al patto costituzionale poi.

 

Non si è cambiato orizzonte nemmeno con la crisi del modello intervenuta nel 2008, liberando da ogni vincolo e responsabilità le classi dirigenti manageriali che quella crisi non avevano intuito, ma che riuscirono a non pagare. Anzi, addirittura a volgerla a loro favore, utilizzandola per il definitivo smantellamento del sistema di garanzie e realizzando enormi profitti mentre scaricavano il debito sui cittadini.

 

Dal 2011 al 2017, l’Italia ha visto emergere enormi diseguaglianze, più di 4 milioni di poveri, trasferimenti massicci di fondi pubblici dal Sud al Nord, destrutturazione del sistema di garanzie, aumento della corruzione, dissesto dei conti pubblici, impoverimento massiccio della popolazione che produce imbarbarimento sociale.

 

Non c’è stato nessun intervento per ripristinare il controllo sulle storture prodotte dalla finanziarizzazione dell’economia, per concepire regole contro le scorribande speculative; il PD si è adeguato alle decisioni dei poteri finanziari interni ed internazionali, abdicando alla funzione di governo del mutamento sociale ed economico, accettando la destrutturazione dell’Italia. E’ stato così attore della perdita di ruolo di un centrosinistra che ha visto nei mercati finanziari il nuovo paradigma dell’economia, negli investitori istituzionali e privati i nuovi interlocutori, rinunciando persino a denunciarne le peggiori speculazioni, spesso volto unico assunto dalla pirateria finanziaria.

 

Non c’è da illudersi: la Direzione del PD non affronterà certo il tema della sua collocazione nel mercato della politica italiana ed europea, né darà il via ad un percorso congressuale destinato al rovesciamento di una linea politica utile a far uscire il partito dal gorgo dell’inutilità prospettica.

 

Eppure, il senso di una forza politica nazionale dovrebbe essere proprio quello di indicare una cultura politica di riferimento, un modello, una prospettiva dell’agire politico. In una società complessa, nella quale l’innovazione tecnologica, la globalizzazione dei mercati e la fine dell’equilibrio internazionale propongono interrogativi profondi e di carattere strategico, si chiedono chiavi d’interpretazione, si esigono ricette che riportino le questioni fondamentali nelle scelte politiche, per le quali serve una visione prospettica sul futuro. A questo serve un partito. Senza questo, è solo grumo di potere.

 

Ma non saranno certo le manovre interne a ridare un senso a ciò che non lo ha mai avuto. E se alcuni decenni orsono a Bad Godesberg si celebrò lo sganciamento del socialismo europeo dall’influenza comunista, oggi serve uguale shock per recuperare un significato di senso. Francia, Germania, Spagna, Grecia, Italia: la crisi di quella che un tempo fu la socialdemocrazia europea è divenuta irrisolvibile perché il capitalismo liberista 4.0 ha bisogno di guerre e di recessione per potersi rilanciare; non è emendabile, non prevede elementi di inclusione, ripensamenti strutturali dove poter inserire una proposta di mediazione, men che mai di superamento del suo modello.

 

Per questo la crisi terminale del centrosinistra non è risolvibile senza un big bang che rimetta al centro il superamento di un capitalismo incompatibile con il benessere collettivo. A questo servirebbe una sinistra, moderata o radicale che sia. In assenza di ciò, non ci sono rilanci efficaci: l’unica soluzione, purtroppo o per fortuna, diventa la dissoluzione.