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Tra qualche ora sapremo se vedrà la luce il governo Lega-M5S. Se succedesse saremmo di fronte ad un panorama inedito nella storia politica italiana. Per la prima volta a trattare per la formazione del governo ci sono due forze politiche che non vengono dall’alveo dell’arco costituzionale e, soprattutto, non appartengono alle scuole di pensiero –liberale, cattolico, socialista, comunista – che hanno determinato la storia politica dell’Europa post seconda guerra mondiale. Sono, per così dire, aggregati elettorali post-ideologici, costruiti sulle pulsioni primarie e di riflesso che si creano in un paese che ha nell’assenza di qualità nel governare e nella peggiore iniquità, la sua identità reiterata.

 

 

Vengono chiamati populisti, sovranisti, ma il fatto è che declinare in aggettivazioni dal tratto negativo concetti straordinariamente importanti come la volontà popolare e ancor più la sovranità nazionale, è controproducente. Rammenta semmai che i partiti in generale non hanno nessun interesse per gli interessi popolari e meno ancora per l’indipendenza e la sovranità nazionale del Paese.

 

Le accuse che gli vengono mosse sono spesso arroganza che maschera la capacità di comprendere che è proprio il fallimento di una classe dirigente ruffiana ed incapace e di partiti corrotti ideologicamente prima che nei comportamenti, che ha depauperato fino a rendere superflua ogni identità politica. E al disarmo ideologico che ha caratterizzato la sinistra non si può aggiungere anche il disprezzo per chi, invece, anche senza il riparo ideologico, pensa di dover rimettere la politica sul ponte di comando.

 

Ci riusciranno? Il tentativo si annuncia difficile, vuoi per una maggioranza parlamentare poco coesa, vuoi perché non hanno le capacità e le abilità necessarie. Ma in attesa di capire se riusciranno a trovare l’accordo sulla figura da inviare a Palazzo Chigi e se, come e quando riusciranno a realizzare i tre punti del programma che sono alla base dell’intesa, possiamo soffermarci sui rischi politici insiti nell’operazione.

 

Due sono gli aspetti sui quali, effettivamente, le due forze politiche possono facilmente trovare un’intesa, almeno per titoli: una è l’abolizione della Legge Fornero, l’altra prevede invece una rilettura della politica estera nel teatro europeo e mediorientale.

 

Molto più difficile appare però, sotto il profilo della sostenibilità dei conti a breve-medio termine, tenere insieme reddito di cittadinanza e flat-tax, perché si tratta di due provvedimenti che risultano controversi in buona parte dell’elettorato (rispondono, in effetti, ognuno al rispettivo insediamento elettorale) e perché, accompagnandosi alla abolizione della Fornero, ben più che una modifica dei flussi di spesa avrebbero bisogno di una generale reimpostazione della nostra politica economica. Operazione difficile viste le compatibilità di spesa obbligate dalla vigilanza di Bruxelles; per superarle servirebbe un accordo politico ben più ampio e coraggioso e leader di ben altra stoffa.

 

Tra i due provvedimenti vanno comunque evidenziate le differenze: se il reddito di cittadinanza – pur interessante e meritevole di sostegno - appare come una risposta emergenziale e dal respiro corto di fronte alla crisi del lavoro, la flat tax è, semplicemente, una truffa. Chiamare populista chi sostiene la flat-tax appare invero improprio. È semmai il contrario, visto che toglierebbe risorse enormi alla fiscalità generale per dirottarle sotto forma di esenzione totale ai ricchi. Ricorda che Salvini, più che un tribuno del popolo, è un Robin Hood alla rovescia, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Ove venisse legiferata, non troverebbe mai la firma del Quirinale, perché viola il principio e le disposizioni sulla tassazione progressiva previste dalla Carta. Quirinale prima o Corte Costituzionale poi ne dichiarerebbero l’incostituzionalità.

 

L’operazione Palazzo Chigi sembra comunque far brillare nani e ballerine di questo nuovo proscenio e in parte ciò è comprensibile. Per il leader leghista l’alleanza rappresenta la possibilità di procedere verso la leadership della destra in tutte le sue articolazioni. Senza il consenso di Berlusconi non sarebbe stato possibile: denaro, apparato mass-mediatico e sistema di relazioni istituzionali di cui dispone Forza Italia sono utilizzabili solo in un quadro di coalizione, mentre da risorsa diverrebbero primo avversario nel caso di una rottura dell’alleanza. La mediazione di Gianni Letta è stata la mossa decisiva affinché il rischio di rottura interna fosse scongiurato e la destra potesse riprendere il cammino verso il governo, seppure in coabitazione con i Cinque Stelle.

 

Ma la strada intrapresa da Salvini è comunque un vulnus per l’alleanza e la sentenza che riporta all’eleggibilità Berlusconi, per quanto non determina di per sé la ripresa di consenso a Forza Italia, è importante per il Cavaliere, che non ha nessuna intenzione di lasciare a Salvini lo scettro del comando sulla destra e che ha in proposito già ammonito come la navigazione sarà burrascosa e l’alleanza non solidissima. Berlusconi sa che per ragioni anagrafiche, se vuole tentare di mettere in sicurezza il suo patrimonio politico e imprenditoriale deve farlo rapidamente. Dunque un ritorno alle urne nel giro di pochi mesi sarebbe auspicabile per riequilibrare i rapporti di forza interni alla destra.

 

Un altro interrogativo riguarda la “digeribilità” dei rispettivi corpi elettorali ad una alleanza che non era stata mai progettata pubblicamente. L’elettore leghista, e più in generale quello della destra, non ha problemi ad accettare l’alleanza con i grillini; la storia della coalizione inventata da Berlusconi nel 1994 e che vede ora Salvini come azionista di maggioranza si è sempre caratterizzata come un bidone aspiratutto, capace di tenere dentro tutto e il suo contrario: liberali e conservatori, cattolici e fascisti, leghisti, ex socialisti e democristiani, insomma di spaziare da Casini e Mastella fino a Casa Pound. In questo senso non vi sono rischi di tenuta del quadro elettorale; una volta che fossero intrapresi provvedimenti di respingimento in tema di immigrazione, divenisse legge la flat-tax e fosse superata la Legge Fornero, l’elettorato di destra sarebbe più che soddisfatto.

 

Discorso diverso per i 5 Stelle, che hanno una incognita vera nella reazione elettorale all’operazione di governo con la destra. Una parte importante del loro voto attinge più dal serbatoio storico del centrosinistra che da quello della destra. L’elettore di destra, infatti, ha a disposizione tutte le opzioni ideologiche nella coalizione di destra, mentre quello di sinistra non dispone affatto di opzioni con un minimo di credibilità politica e numerica. Questo è quello che ha consentito l’exploit dei grillini: la capacità di attrarre un voto nuovo e de-ideologizzato che si è saldato con quello che ha abbandonato il centrosinistra, ritenuto colpevole a sua volta di abbandono del suo profilo politico e non ha trovato in LeU (giudicata la ruota di scorta del PD) né in Potere al Popolo (considerato un dato folklorico più che politico) luoghi affidabili per sbarrare la strada al ritorno dei fascio-leghisti al governo.

 

Gli elettori che continuano ad avere la pregiudiziale antifascista come bussola del loro voto, non rivoteranno di nuovo 5 Stelle per insostenibilità ideologica verso chi permette ai fascisti e leghisti l’arrivo a Palazzo Chigi. Sarà meglio che riflettano i grillini: rischiare una fetta di elettorato per un governo di per sé destinato a durare poco è operazione pericolosa. Conviene?