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All’assemblea del Pd, Matteo Renzi segue la regola d’oro di ogni marito beccato dalla moglie con i messaggi dell’amante nel telefono: nega, nega, continua a negare. Contro ogni evidenza. Poche cose al mondo sono manifeste come il suo fallimento politico, ma lui non riesce proprio ad ammetterlo. Vive in una bolla, paralizzato dall’illusione di un riscatto ineluttabile.

 

Nella sua visione semplificata della politica in stile vasi comunicanti, rifiuta qualsiasi passo indietro perché convinto che in futuro il fallimento del governo legastellato riporterà al potere il suo Giglio Magico. Ha il coraggio di proporsi come soluzione del problema che lui stesso ha contribuito più di ogni altro a causare. Come se un’infezione si potesse curare con il batterio che l’ha provocata.

 

 

Il Bullo di Rignano non vede (o finge di non vedere) che il governo Conte è figlio prima di tutto del deficit di politiche sociali degli ultimi esecutivi a guida Pd. Nato con intenzioni (per la verità ambigue) di centrosinistra, nel corso degli anni il Partito democratico si è trasformato a poco a poco, fino a diventare sotto la guida toscana la creatura ineffabile che è oggi. Una sorta di mostro liberale che porta su di sé colpe imperdonabili, prima fra tutte la definitiva precarizzazione del lavoro.

 

Nemmeno la raffica di stroncature elettorali è bastata a suggerire un minimo di autocritica. Sembra quasi che Renzi sia ancora in preda al delirio di onnipotenza scatenato in lui dalla vittoria alle europee del 2014, quando ottenne il 40% a pochi mesi dall’insediamento e subito dopo aver varato il bonus Irpef da 80 euro per il ceto medio.

 

Da lì in avanti, per il Pd sono arrivati solo disastri, culminati nella débacle del referendum costituzionale e poi nella Caporetto dello scorso 4 marzo. In nemmeno quattro anni, il bacino elettorale del Partito “a vocazione maggioritaria”, Veltroni dixit, si è più che dimezzato, piombando al 18%. Quattro mesi sono passati dalle politiche, ma ancora non si è visto nemmeno il barlume di un’analisi della sconfitta. Anzi, Renzi ha spinto quasi più di Salvini e di Di Maio per la formazione dell’attuale governo: “Ora tocca a loro, noi ce ne stiamo a guardare coi popcorn”. E dell’Italia chissenefrega.

 

Qualsiasi piano Renzi abbia in mente per ripartire è chiaramente destinato al fallimento, se non altro perché il Paese ha dato prova di nutrire nei confronti dell’ex Premier un risentimento personale. Eppure, al momento non c’è modo di liberarsi di lui in modo definitivo, per due ragioni.

 

Primo, perché grazie al colpo di mano sulle liste elettorali presentate alle ultime politiche, al momento Renzi controlla i gruppi parlamentari del Pd. Secondo, perché chi trama per il ribaltone nel partito è troppo debole (vedi Gentiloni, Zingaretti, Cuperlo) oppure troppo simile all’ex segretario (leggi Calenda).

 

L’unica soluzione auspicabile a questo punto è una nuova scissione che separi le strade dei litiganti: da una parte il Pd renziano, liberista e antisocialista; dall’altra un tentativo di ridare vita alla sinistra sociale. Ma bisogna che sia un partito vero, con un’identità chiara e un programma definito (cioè tutto quello che fin qui non è stato Liberi e Uguali). Il problema è che un progetto simile avrebbe bisogno  anche di un gruppo dirigente intorno a cui coagularsi, che al momento non esiste.

 

Per adesso, non rimane che ascoltare il canto di questo cigno insopportabile che è Renzi. Dobbiamo sorbircelo ancora mentre recrimina, rivendica e rilancia. Con la solita spocchia, la solita arroganza di chi – per dirla con Gianni Rodari – si crede un punto e basta ed è solo un punto e a capo.