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Lo spread italiano è già oltre la soglia dei 300 punti e minaccia di allargarsi ancora, aprendo voragini nei conti delle banche. Dopo il declassamento arrivato da Moody’s lo scorso 19 ottobre, venerdì sera Standard & Poor’s ha abbassato l’outlook sul nostro paese da stabile a negativo, preparando la strada per un downgrade nei prossimi mesi. Intanto, di fronte al rifiuto italiano di modificare i saldi della manovra, il 21 novembre Bruxelles darà il via all’iter che fra dicembre e gennaio porterà all’apertura di una procedura d’infrazione contro Roma per il mancato rispetto delle regole sulla riduzione del debito.

 

 

Tutto questo fa gioco ai vicepremier Salvini e Di Maio in vista delle europee di maggio, perché permette di costruire una facile campagna elettorale contro Europa e mercati. Allo stesso tempo, però, i guai finanziari del Paese rischiano di aggravarsi al punto da mettere in discussione la tenuta del governo.

 

La questione è banale e non opinabile. Le banche italiane hanno in pancia 364 miliardi di Btp: quando lo spread si allarga, il valore di questi titoli diminuisce (rendimenti e prezzi viaggiano sempre in direzioni opposte) e se questa situazione si protrae nel tempo gli istituti di credito sono costretti a svalutare i bond pubblici che hanno in portafoglio.

 

Questo crea dei vuoti nei loro bilanci, producendo due conseguenze: primo, le banche hanno bisogno di nuovo denaro per soddisfare i requisiti di capitale imposti dalle regole europee (o addirittura per non andare in bancarotta); secondo, le risorse da destinare all’economia reale si riducono, il che pesa in modo significativo sull’andamento del Pil, soprattutto perché in Italia - a differenza che in altri Paesi - le aziende si finanziano quasi esclusivamente attraverso le banche.

 

Qualcuno nel governo gialloverde comincia ad accorgersi che il rischio è serio. Il primo a farlo notare è stato il leghista bocconiano, Giancarlo Giorgetti: “È evidente che se lo spread veleggia verso quota 400, gli attivi bancari vanno in sofferenza ed è necessario ricapitalizzare”, ha detto la settimana scorsa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

 

A stretto giro gli ha fatto eco il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, sottolineando che al livello attuale, cioè 310-320 punti base, lo spread “non è sostenibile nel lungo termine, perché crea problemi alla parte più debole del sistema bancario”.

 

Alla fine ha detto la sua perfino Mario Draghi, normalmente più che reticente a esprimersi sui problemi delle banche. A chi gli chiedeva a quale quota il differenziale italiano potesse diventare problematico, il presidente della Bce ha risposto: “Non ho la sfera di cristallo, ma è ovvio che lo spread si ripercuota sul capitale delle banche”.

 

Per questa presa di posizione Draghi è stato criticato da Di Maio, il qual però non ha potuto negare l’esistenza del problema: “La ricapitalizzazione delle banche può avvenire in tanti modi. Siamo molto attenti e vigili e abbiamo contatti diretti ogni giorno con i vari manager”. Ancora più esplicito Matteo Salvini: “Se qualche banca ha bisogno noi ci siamo, senza fare gli interventi del passato”.

 

Sembra che fra il Tesoro e Palazzo Chigi stiano valutando due ipotesi. La prima consiste nel rimpinguare il fondo creato dal decreto salva-banche del governo Gentiloni: dei 20 miliardi originari ne sono rimasti 15 (cinque sono stati già usati per ricapitalizzare Mps) e rischiano di non bastare. La seconda prevede di rafforzare il fondo interbancario per la tutela dei depositi, così da evitare la fuga dei correntisti. Il problema è capire con quali soldi si possa realizzare tutto questo, visto che il bilancio pubblico dell’anno prossimo è già ampiamente in rosso. Senza contare che i salvataggi delle banche a spese dello Stato sono impopolari e, in teoria, avrebbero bisogno di un via libera europeo difficile da ottenere, soprattutto se prima non è stato applicato il bail-in (che fa pagare le crisi in primo luogo ad azionisti e obbligazionisti).

 

Per questo il governo sta valutando anche un’altra strada: quella di rafforzare il capitale delle banche più fragili attraverso fusioni. Tra gli istituti più vulnerabili ci sarebbero Carige e la Popolare di Bari, ma l’ipotesi più verosimile è che si cominci dal 68% di Mps in mano allo Stato, che potrebbe confluire in un istituto a scelta fra Ubi, Bper o Banco Bpm, facendo nascere il terzo gruppo italiano dopo Intesa Sanpaolo e Unicredit. In questo modo, l’Italia rispetterebbe anche l’impegno di riprivatizzare Montepaschi entro il 2021 preso dal governo Gentiloni con l’Ue. E Bruxelles non avrebbe ragione di arrabbiarsi. Almeno stavolta.