Stampa

Da reddito a mini reddito, da flat tax a regalino per le partite Iva. Le misure promesse da Lega e Movimento 5 Stelle durante la campagna elettorale per le ultime politiche si sono ristrette come vestiti dopo un lavaggio sbagliato. E ora che la prima manovra del governo gialloverde è approdata in Parlamento, vale la pena di fare un confronto fra gli annunci  dell’anno scorso e i risultati che si prospettano oggi.

 

Partiamo dal reddito di cittadinanza. Fino al 4 marzo scorso, i 5 Stelle parlavano di dare 780 euro a tutti i poveri (non solo alle persone in povertà assoluta) e di alzare le pensioni minime allo stesso livello. Il costo previsto era di 17 miliardi (di cui due per la riforma dei centri per l’impiego), soldi che i grillini sostenevano di aver già trovato. Tutto fatto, tutto pronto.

 

Poi è arrivato il confronto con la realtà. Si è scoperto che le coperture non c’erano affatto: quei 17 miliardi si sono praticamente dimezzati e per trovarli è stato necessario scassare i conti pubblici a un livello tale da rendere inevitabile l’avvio di una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles. Nei fatti, dunque, il reddito di cittadinanza sarà una misura diversissima da quella annunciata, perché i soldi non bastano. Il sussidio sarà destinato solo a chi vive in povertà assoluta (circa 5 milioni di persone, contro i 9 di cui si leggeva nel progetto originario) e l’importo pieno (780 euro) andrà esclusivamente a chi è in affitto e non ha reddito. Per coloro che vivono in una casa di proprietà, invece, la somma sarà sensibilmente più bassa, forse intorno ai 500 euro.

 

Anche la flat tax si è trasformata in modo radicale nel passaggio da fantasia a realtà. Anzi, se possibile la metamorfosi subìta dalla misura economica di punta del programma leghista è ancora più marcata. La rivoluzione fiscale che avrebbe dovuto abbattere il sistema degli scaglioni Irpef per istituire una sola aliquota al 15 percento è rimasta una favola.

 

Quella che i leghisti hanno infilato nella manovra e che continuano a chiamare "flat tax" è in realtà qualcosa di molto diverso. Non vale per i lavoratori dipendenti, ma solo per alcuni autonomi. In sostanza, si tratta di un allargamento del vecchio regime dei minimi. Dal 2019, la soglia di reddito annuo entro cui sarà possibile accedere all'aliquota unica e agevolata del 15 percento (sostitutiva di Irpef e Irap) salirà a 65mila euro. Il nuovo tetto sarà valido per tutte le partite Iva, mentre il sistema attualmente in vigore prevede soglie diverse, comprese fra 25mila e 50mila euro, a seconda dell'attività svolta (per i professionisti, ad esempio, l'asticella è a quota 30mila euro).

 

Inoltre, dal 2020 dovrebbe essere introdotta un'ulteriore aliquota al 20 percento per i redditi fra 65mila e 100mila euro.

 

La portata di questo intervento è enormemente inferiore alle aspettative di molte persone che hanno votato Lega per pagare meno tasse. La buona notizia è che non dovremo fare i conti con l'ingiustizia sociale di una flat tax vera e propria, che, come ogni taglio delle tasse indiscriminato, avvantaggia i ricchi molto più dei poveri. La cattiva è che, nel suo piccolo, anche questo intervento in favore delle partite Iva si rivela profondamente iniquo, perché - a parità di reddito lordo - permette agli autonomi di intascare più soldi dei dipendenti.

 

Secondo alcune simulazioni di Eutekne, partendo da 45mila euro lordi, un lavoratore dipendente (a tempo determinato o indeterminato) incassa uno stipendio netto di 2.188 euro per 13 mensilità, mentre un autonomo arriva a sfiorare i 3mila euro al mese (2.994). La differenza è di oltre un terzo, il 36,8%, che vuol dire 10.471 euro in più ogni anno. In altri termini, rispetto al progetto originario è sopravvissuta soltanto l'ingiustizia di fondo.