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Fra Stati Uniti e Iran rischia di scoppiare la guerra, ma in Italia non ce ne siamo accorti. La strategia è sempre la stessa: rimanere fermi, silenziosi, come gechi al sole. In attesa che qualcun altro decida anche sui nostri interessi. È lo stesso approccio che ci sta portando al disastro in Libia, dove Erdogan si prepara a soppiantarci in Tripolitania.
Ma torniamo alla cronaca più recente: l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso venerdì scorso all’aeroporto di Baghdad da un drone americano su ordine di Donald Trump. Un atto di guerra potenzialmente capace d’innescare una spirale di sangue: Teheran, oltre che intenzionata, è praticamente costretta a vendicarsi e il rischio di escalation è molto alto.

 

Ora, di fronte a una situazione del genere ci si aspetta che l’Italia - da sempre il principale avamposto dell’esercito americano - prenda una posizione chiara almeno a parole, se non con i fatti. Invece no, niente da fare: secondo il nostro ministro degli Esteri, dedito più alla comicità involontaria che alla diplomazia, “la priorità è e resta la lotta al sedicente Stato Islamico”. Sembra la frase di uno scolaretto che, interrogato in geografia, non sa cosa rispondere e inizia a blaterare di barbabietole da zucchero. Anche perché forse Di Maio non lo sa, ma se “il sedicente Stato Islamico” non esiste più in Siria e gode di pessima salute in Iraq, il merito è in buona parte del signore che Trump ha deciso di far esplodere venerdì notte.

Invece di questa patetica melina, cosa potrebbe fare il nostro governo? In teoria, le alternative non mancherebbero. Alberto Negri, giornalista esperto di Medio Oriente, ne elenca quattro in un breve post su Facebook: “1) Fermare le basi Usa in Italia fino a che la situazione non sarà chiarita, tenendo aperto solo il monitoraggio radar sulla Libia, che ci interessa. 2) Avviare il ritiro dei contingenti militari da Iraq e Afghanistan. 3) Congelare gli acquisti degli F-35 americani. 4) Consultarsi con l’Onu sulla sicurezza del contingente italiano e internazionale in Libano”.

C’è da scommettere che non faremo nulla di tutto ciò, visto che ormai da anni siamo del tutto privi di una politica estera e ci limitiamo ad accettare supinamente le imposizioni altrui. Stavolta però la partita è davvero rischiosa e s’intreccia a quella libica.

I primi a essere in pericolo sono i militari italiani in missione in Medio Oriente: in Libano, dove Hezbollah ha annunciato che vendicare Soleimani “sarà responsabilità di tutti i combattenti”, ma anche in Iraq, dove il nostro contingente opera sotto il comando americano e potrebbe facilmente rimanere coinvolto in attacchi di rappresaglia. Purtroppo, nessuno si è ancora peritato di spiegare tutto questo a Matteo Salvini, che continua a distillare farneticazioni belligeranti nella (vana) speranza che Trump gli perdoni i rapporti sottobanco con la Russia.

Intanto, secondo vari analisti, Erdogan starebbe valutando la possibilità di concedere agli Usa l'impiego della base di Incirlik - la più vicina all'Iran - in cambio del nulla osta allo sbarco turco a Tripoli, già approvato dal Parlamento di Ankara. Se il piano andrà in porto, il primo Paese a rimetterci sarà l’Italia: proprio in Tripolitania si trovano i giacimenti petroliferi Eni da cui dipende buona parte del nostro approvvigionamento energetico, per non parlare della costa da cui partono ogni anno migliaia di migranti. Insomma, gli interessi in gioco sono tanti, ma noi continuiamo (e continueremo) a rimanere fermi, in silenzio. Come gechi.