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L’emergenza coronavirus sta cambiando profondamente il modo di vivere, ma anche il modo di pensare, persino di pensarsi di milioni di persone. Contemporaneamente. Sono trasformazioni inedite che stanno avvenendo e che vanno perciò analizzate, comprese, nei loro effetti concreti sulla quotidianità delle vite ma anche per gli effetti sulla costruzione del senso comune. L’evidenza della realtà infatti svela verità fino ad ora ancora troppo nascoste o dimenticate da molti. Stanno saltando paradigmi, categorie, approcci, simboli, immaginario. Più della forza degli argomenti teorici, culturali, politici, più della passione della partecipazione militante, più di decenni di storia e di lotte, oggi è la forza di un virus che impone a livello di massa, di milioni e milioni di persone, consapevolezze che si palesano come irrinunciabili.

 

Innanzitutto sulla salute, sull’importanza del sistema sanitario, che deve essere pubblico e universalistico. Sembra un’era fa quando le sirene liberiste costruivano senso comune contro il pubblico; “privato è bello” si diceva, non in tempi remoto ma fino a qualche settimana fa; “libertà di scelta” era la bandiera della devolution e di quell’autonomia differenziata che ancora la politica sta discutendo. Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico è stato il crimine di questi decenni, che ha tutelato solo la libertà di scelta dei fondi assicurativi e del privato parassitario, non certo delle persone, lasciate sole e sempre più disuguali. Oggi finalmente si comprende che il diritto alla salute – come sancito nell’art. 32 della nostra Costituzione – non è un “diritto proprietario” del singolo, che si tutela con assicurazioni private, ma è un diritto solidale, che chiama alla responsabilità e alla solidarietà collettiva. Una consapevolezza oggi rifondata, a partire dalla realtà dei contagi e delle morti: “la salute  come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”.

L’emergenza coronavirus sta cambiando le certezze, le illusorie rassicurazioni identitarie, capaci di evocare il razzismo come l’antidoto all’invasione della civiltà occidentale, contro l’immigrato, il nero. Ma anche contro ogni “altro”, il diverso da te. Siamo noi italiani i primi untori per l’Europa e soffriamo oggi noi per i muri in cui siamo recintati, per la scarsa solidarietà, vicinanza. Il virus sta mutando l’immaginario alla velocità dei contagi. Il virus attraversa i confini, può colpire chiunque senza distinzioni, quasi assumendo una tragica valenza ugualitaria per una generale “livella”. Da qui può nascere una inedita consapevolezza, di reciprocità, a partire dall’esperienza della vita di ciascuno, rifondando la categoria dell’umano.

Ma se l’emergenza coronavirus è entrata nelle vite di tutti, cambiandole e stravolgendole, non è per tutti allo stesso modo. Il virus contagia sì senza distinzioni, ma non cancella le differenze e le disuguaglianze. Tra ricchi e poveri, tra italiani e migranti, tra precari e garantiti, tra uomini e donne. Non solo non è la stessa cosa restare a casa per chi la casa ce l’ha e per chi invece non ce l’ha - come gli homeless o come i migranti rinchiusi nei centri - ma anche per chi vive con tutta la famiglia in un monolocale, dove si mangia e si dorme tutti insieme. E non è la stessa casa lavorare da casa se non hai lo spazio vitale per farlo, se hai bambini da accudire o se quel lavoro da casa proprio non lo puoi fare. Non è la stessa cosa se si è comunque garantiti da un contratto o da una pensione, o se si è invece precari, senza tutele, senza futuro.

Il virus rende visibile quello che restava invisibile, da una parte le disuguaglianze nascoste dietro la retorica della modernità e della flessibilità e dall’altra quel lavoro domestico da sempre senza diritti, tutele, senza riconoscimenti. L’inedita realtà vissuta contemporaneamente da milioni di persone sollecita nuove  consapevolezze: sulla necessità dello Stato di tutelare chi non ce la fa e anche sull’importanza del lavoro di cura, delle relazioni, da assumere come valore di bene primario, non di obbligo per il ruolo “naturale” familiare delle donne.

E ancora, se l’emergenza coronavirus è per tutti motivo di restrizioni, di limiti alla propria autonomia e libertà, per tante donne è molto di più. E’ una condanna al’inferno, perché sono costrette a convivere con chi continua a picchiarle, umiliarle, controllarle. Come ci dicono le associazioni che lavorano sulla violenza, le telefonate di richieste di aiuto sono drasticamente diminuite, segno certamente non di un’improvvisa riduzione delle violenze, ma di un drammatico isolamento delle donne. Si dovrebbero allora ascoltare le proposte dei centri antiviolenza, di prevedere per esempio un numero di emergenza gratuito che non abbia bisogno di aspettare la voce di chi chiama ma che possa intervenire subito.

La riflessione sull’emergenza coronavirus dovrebbe poi continuare, soprattutto per cercare di capire, di sapere perché e come può nascere e come si può diffondere questo nuovo virus, indagando gli effetti della follia di questo sistema economico, di questo modello di produzione e di consumo, che accetta per la sua efficienza – che poi viene puntualmente smentita - non solo la schiavitù del lavoro di miliardi di persone ma anche la distruzione dell’ambiente.

I salti di specie dei virus dall’animale all’uomo – del coronavirus ma anche, prima di questo, della SARS, dell’Ebola e dell’HIV - sono favoriti dall’estrema concentrazione di popolazione e dall’urbanizzazione forzata dalle campagne, dalla distruzione delle foreste e degli ecosistemi. Sono cose note, patrimonio purtroppo fino ad oggi soltanto della coscienza di minoranze e della passione civile del movimento di  Friday for future. Ma la consapevolezza sta cambiando, proprio per questa emergenza. Si comprende che la distruzione dell’ambiente non è solo un pericolo per il futuro, ma è un pericolo per l’oggi, l’ora e il qui, per l’impatto oggi, e non domani, sulla salute e sulla vita stessa delle persone.

Infine, la sospensione sociale ed economica generalizzata aprirà ferite profonde. Saranno milioni le persone che vedranno drasticamente cambiare la loro condizione, chi perderà il posto, chi non potrà coprire il mutuo, chi  sarà costretto a lasciare gli studi e i suoi progetti. Chi si troverà per la prima volta povero. Serviranno altre ricette, dovranno cambiare i paradigmi, la scelta degli stakeholders. L’Europa, più che dal sovranismo miope e inefficace, sarà  rivoluzionata dall’irrompere dei bisogni dei popoli, tra loro interconnessi, interdipendenti, solidali. O per lo meno, dovrà. E la straordinarietà di questa emergenza può essere una straordinaria occasione.