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Abbiamo scoperto che i fratelli d’Italia, in realtà, non sono davvero tutti fratelli. Ci sono anche i cugini, i cugini di secondo grado e i parenti alla lontana che non senti nemmeno a Natale. È questa la morale della legge sull’autonomia differenziata cui la settimana scorsa il Consiglio dei ministri ha dato il via libera. Il progetto, partorito dalle meningi di Roberto Calderoli, punta a creare 21 Regioni a statuto speciale, cancellando ogni possibilità di colmare le differenze economiche e sociali che fratturano il Paese. Non solo: questa legge stabilisce in via definitiva che la sperequazione Nord/Sud è giusta e va mantenuta così com’è, perché - in fondo - i ricchi settentrionali sono più meritevoli, e quindi hanno diritto a godere di servizi migliori rispetto ai poveri meridionali.

 

Il problema principale riguarda i cosiddetti Livelli essenziali delle prestazioni (i Lep), ossia i parametri che dovrebbero garantire a tutti i cittadini italiani servizi sufficienti. Il testo approvato in Consiglio dei ministri prevede che il trasferimento delle competenze alle Regioni avverrà soltanto dopo la “determinazione” dei relativi fabbisogni e costi standard. E questa è la prima fregatura, perché stabilire i Lep sulla carta non significa finanziarli. Per evitare che alcune Regioni vengano lasciate indietro rispetto ad altre, è determinante che la perequazione sui servizi essenziali (sanità, istruzione, assistenza, trasporti, eccetera) avvenga prima dell’attuazione dell’autonomia differenziata.

Ciò significa che i Lep non vanno solo “definiti”, ma anche attuati. Del resto, nella sanità i livelli essenziali delle prestazioni sono già stati stabiliti (vengono anche misurati e monitorati), ma le differenze fra le Regioni in questo settore sono comunque abissali. E tali rimarranno finché i Lep, da esercizio intellettuale, non si trasformeranno in un obiettivo da perseguire a suon di investimenti.

Inoltre, in base alla nostra Costituzione, a definire i livelli essenziali delle prestazioni dovrebbe essere il Parlamento e non il governo, come invece prevede il disegno di legge Calderoli. I Decreti della Presidenza del Consiglio sono atti di urgenza, assunti in sede politica, mentre la nostra Carta costituzionale predilige l’adozione di leggi dello Stato. Senza contare, poi, che i Dpcm non sono impugnabili davanti alla Consulta.

In realtà, però, il Parlamento viene marginalizzato anche in un senso più ampio. In base al Ddl, l'intesa tra il governo e la Regione che richieda l'Autonomia (à la carte, su un numero di materie compreso fra 1 e 23) riceve il parere della Conferenza delle regioni e passa poi agli “organi parlamentari”, chiamati a esprimere un parere non vincolante. L'accordo finale (che una volta ratificato è praticamente immodificabile) è contenuto in una legge ad hoc che il Parlamento approva a maggioranza assoluta, ma l’intera trattativa è stata gestita nella concertazione fra governo e Regione.

Infine c’è la cara vecchia spesa storica, che è uscita dalla porta della bozza per poi rientrare dalla finestra.

Nella relazione che accompagna il disegno di legge, infatti, si dice che la cabina di regia che dovrà fissare i Lep (entro un anno) estenderà la sua ricognizione “alla spesa storica” sostenuta dallo Stato nei vari territori. Traduzione: le Regioni che spendevano meno avranno meno fondi, mentre quelle che in passato erano più ricche continueranno a beneficiare di maggiori trasferimenti dallo Stato. Cioè l’esatto contrario dello scopo per il quale i Lep sono stati concepiti. Del resto, l’autonomia differenziata è proprio l’esatto contrario di quello che servirebbe all’Italia: un Paese che, numeri alla mano, ha un disperato bisogno di riavvicinare le Regioni aumentando la coesione nazionale. Ci vorrebbe Gaetano Salvemini, ma siamo in mano a Calderoli.