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di Elena G. Polidori

Sei morti in 24 ore, l’ultima strage bianca che ha fatto urlare “basta” al Capo dello Stato e che, ovviamente, non sarà l’ultima. "Non ci sono più parole per esprimere sdegno e dolore – ha commentato irato Napolitano - è ora di decidere e agire". Dopo i caduti di Genova, Monza, Brescia e Latina, sabato un operaio di 53 anni, Santo Cacciola, è morto a Messina perché un montacarichi gli ha ceduto sotto i piedi. Contemporaneamente in Sardegna, Felice Schirru, di Sinnai, 33 anni, è stato travolto da un tubo in acciaio che veniva spostato con una gru da un'autocarro. Altri due operai, dunque, che si aggiungono alla schiera di quelli che Prodi ha definito “martiri”. Pur comprendendo ciò che il Primo Ministro voleva denunciare, non sembra però il termine giusto; non ci si immola certo per un salario, ne si va a lavorare sospinti dall’idea che la nostra vita possa acquisire un’importanza secondaria rispetto a quella di portare a casa la pagnotta. E’ l’esatto contrario: si lavora per vivere, non per morire. Più che martiri, dunque, i caduti sul lavoro sono morti ammazzati, vittime di omicidi che l’attuale cultura del lavoro ha reso solo merce disponibile, declassificando le risorse principali di un’impresa ad oggetti subordinati, interscambiabili tra loro. Siamo tutti utili come bulloni, diventiamo tutti un problema contabile quando chiediamo dignità e sicurezza. E la politica riesce a rispondere solo pensando di “privatizzare” il ruolo degli ispettori del lavoro. Se la questione delle morti sul lavoro ha acquisito le caratteristiche dell’emergenza nazionale, al punto da convincere il governo a varare in gran fretta un goffo pacchetto di misure, è soprattutto perché il lavoro ha perso definitivamente la sua sacralità. La precarizzazione è ormai sedimentata e l’eccezione è invece la stabilità dell’impiego. Eppure, che questa concezione del lavoratore inteso come “oggetto” subordinato e senza diritti dell’impresa sia ormai prevalente, lo si vede anche scorrendo il disegno di legge varato venerdì: un lungo elenco di misure per lo più discutibili, che anche in virtù della scelta dello strumento legislativo - il ddl appunto - rischia di rimanere nel cassetto ancora a lungo. Non fosse urgentissimo intervenire, ci sarebbe da augurarselo, almeno per alcuni aspetti di questo ddl, come quello che prevede l’estensione di alcune tutele anche ai parasubordinati: invece di eliminare questa forma di lavoro abusivo, il governo ha pensato bene di parificarlo nei diritti al lavoro a tempo indeterminato. Una beffa. Anzi, un’elemosina indecorosa.

Così come non può che indignare la proposta del ministro Bersani, ormai pervaso dal furore liberista, al quale si deve la proposta di cedere l’intero comparto sicurezza dei macchinari pesanti ad aziende private, spodestando completamente il pubblico nella figura dell’Ispesl e dei suoi ispettori. Insomma, in prima fila ci sono sempre le esigenze del mercato e delle imprese, poi quelle della salute e dei diritti dei lavoratori. Malgrado l’emergenza, dunque, par di capire che la sicurezza sul lavoro non sia proprio in cima alle priorità dell’attuale classe politica, troppo impegnata a discutere su come spartirsi le rendite di posizione nei prossimi congressi piuttosto che considerare come impellente la necessità di ribaltare l’attuale subordinazione di milioni di vite umane ai profitti delle imprese.

E’ bene ricordare che gran parte dei profitti maturati negli ultimi anni da alcune delle principali industrie italiane sono state possibili proprio grazie all’intensificazione dei ritmi di lavoro e alla precarizzazione dei contratti; due questioni che costituiscono quel combinato disposto capace di creare insicurezza costante. Stiamo parlando di normative (la legge Biagi, prima di tutto) che hanno svilito il lavoro, derubricandolo a prestazioni usa e getta e spalmando questo principio su tutte le categorie degli impieghi possibili, in modo da scollare completamente il principale tessuto connettivo del Paese, cioè quello direttamente collegato alla crescita economica, all’investimento e, quindi, al futuro di una nazione. Il lavoratore è ora una pedina ad incastro, che va a lavorare oggi ma che non sa se lavorerà anche domani e che, quindi, tende a lavorare di più e in condizioni peggiori pur di andare avanti. Di avere cioè una prospettiva di lavoro che arrivi oltre le tre, quattro settimane. E’ in questa cornice di incertezza che la gente che lavora muore in fonderia o nei cantieri, mentre sposta una scala o perché casca da un tetto. Ma, prima ancora che sopraggiunga l’infortunio, questi operai sono morti dentro, incapaci di immaginarsi un futuro migliore e possibile perché sempre precari, condannati ad una vita di incertezze grazie ad una politica inadeguata e incapace di rovesciare questo ordine di fattori.

Per dire “basta” alle morti sul lavoro con un’intensità fattiva diversa dall’inutilità del monito politico, c’è la necessità di ripensare il lavoro come elemento centrale nella vita dei cittadini e non più solo a puro beneficio dei fatturati delle imprese. Ci sono, allora, dei diritti fondamentali da rispolverare, precarietà da abbattere, tutele e stipendi da aumentare. Forse il “tesoretto” a disposizione del governo potrebbe essere utilizzato in parte anche per questo, per ribaltare una logica del lavoro affermatasi lentamente da più di un ventennio ma le cui conseguenze, oggi, impongono una presa di posizione ideale (e non ideologica) improcrastinabile. C’è bisogno di usare le risorse per aumentare gli ispettori, per aiutare l’azione di prevenzione, per costringere le imprese a tener conto delle regole. C’è necessità urgente di restituire dignità al lavoro ed ai lavoratori, perché solo in questo modo si potranno trasformare i diritti in qualcosa di davvero inviolabile. Il governo, con alcune proposte ridicole, dimostra di non aver capito o non voler capire. I camalli di Genova hanno cominciato a dire la loro.