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di Giovanni Gnazzi

Nove e quindici di un mattino qualsiasi, in un autogrill vicino Arezzo, in una maledetta domenica. Si dice che fosse in corso una rissa tra ultras laziali e bianconeri. Non si sa, nulla è chiaro. Quello che invece è chiaro è che una pattuglia della polizia stradale, che si trova dal lato opposto della carreggiata, in un altro autogrill, a 70 metri di distanza, probabilmente richiamata dalla lite, decide d’intervenire. Lo fa nel modo peggiore. Dapprima correttamente, aziona le sirene, ma subito dopo uno degli agenti decide di esplodere dei colpi di pistola “in aria”, dicono, per “sedare la rissa”. I proiettili, come in numerosi altri casi, invece che andare in aria vanno nel corpo del malcapitato, Gabriele Sandri. Che si trova in un auto la quale, oltre ad essere ad un metro e ottanta o o poco più di altezza e non in aria, secondo le diverse e contrastanti versioni, è ferma o sta lasciando l’autogrill. Dunque: se la rissa è in corso fuori, non si capisce perché i colpi vengono esplosi contro una vettura parcheggiata. Ma quello che più sconcerta è la meccanica degli avvenimenti, cioè la dinamica dell’azione-reazione. Non siamo ancora sicuri che la rissa ci fosse stata (visto che nessuno dei frequentanti dell’autogrill se la ricorda) e, tanto meno, se al momento dell’intervento degli agenti fosse già terminata. Ma in corso o terminata, la domanda che dovrebbe porsi è la seguente: da quale manuale di pubblica sicurezza si evince che le risse si sedano sparando? Peraltro, nel caso specifico, la lontananza di diversi metri dal luogo dell’eventuale rissa, avrebbe impedito comunque l’accertamento di responsabilità dirette nei confronti di ognuno dei partecipanti e, più in generale, dei passanti. peggio ancora sarebbe se i colpi fossero stati esplosi a distanza ravvicinata, cosa non impossibile visto il tiro utile dell'arma. L'inchiesta chiarirà - si spera - quanto avvenuto. Ma una cosa è certa: la polizia può fare ricorso all’uso delle armi da fuoco quando uno o più agenti sono direttamente minacciati da persone in qualche modo armate. O quando persone innocenti sono in grave pericolo. Nessuna di queste due circostanze fino al momento risultano essere tra il novero delle situazioni possibili.

L’agente che ha fatto fuoco non era assolutamente legittimato ad usare le armi. Non aveva né la visuale, né la comprensione assoluta degli avvenimenti per stabilire la possibile presenza di individui eventualmente armati, né per stabilire l’entità dei rischi che altri presenti avrebbero potuto correre. Ha sparato e basta. In un luogo pubblico, senza aver chiaro cosa stesse succedendo né chi vi fosse implicato. Codice penale alla mano, trattasi di un omicidio volontario, senza “se” e senza “ma”.

Quello che nel resto della domenica si è scatenato in diverse città, significativamente a Roma e Bergamo, è gravissimo e si deve a orde di pazzi guidate da delinquenti, che hanno inteso protestare contro la polizia dando vita a scontri durissimi con il solito contorno vergognoso, che sembra trasformare la cronaca di una domenica di calcio in un bollettino di guerra. Spiccano, nell’imbecillità generale, i dirigenti sportivi di Lega e Federcalcio, per tacere di quella “banda del muto” che corrisponde al sindacato calciatori, che hanno ritenuto di poter sospendere solo la partita di Milano tra Inter e Lazio e poi, solo all’ultimo momento, quella di Roma tra Roma e Cagliari. Gli ultras chiedevano di non giocare, d’interrompere per lutto il turno di campionato. Per carità, nessuno si sogna di farsi “dettare la linea” dagli ultras, ci mancherebbe altro. Ma proprio per questo, a dare lezione di civiltà e sospendere il campionato avrebbero dovuto essere gli organi preposti. Anche perché non solo da Bergamo a Taranto, fino a San Benedetto del Tronto, le violenze e gli scontri si sono moltiplicati, ma il messaggio pazzesco che si è scelto d’inviare è che, qualunque cosa succeda, lo spettacolo deve continuare.

Ed é inutile sostenere che la tragedia di Arezzo non era avvenuta in uno stadio e, quindi, niente poteva legare questo al campionato. Si trattava d'interpretare correttamente e realisticamente quanto l'uccisione di Gabriele avrebbe potuto determinare. Si è dato un pretesto a chi vuole, e non da oggi, dichiarare guerra totale tra ultras e forze dell’ordine e quanto successo in serata a Roma testimonia una follia che si lega ad un disegno preciso. Sospendere la partita di Milano e all’ultimo momento quella di Roma e far giocare tutte le altre ha significato per molti, troppi, (alcuni in buona fede e molti altri no) che si sospendevano solo le gare dove, la presenza di tifosi laziali ospiti o abitanti che fossero, avrebbe potuto generare incidenti. Dove invece questi non fossero stati presenti, allora lo showbusiness poteva proseguire. Significa dunque che un tifoso di 28 anni – se permettete, prima ancora che un tifoso un uomo – che viene ammazzato dall’imperizia o dalla dabbenaggine di un agente non è un lutto per lo sport? Ma se la morte di un agente ha sacrosantamente comportato la sospensione delle partite e misure di sicurezza dure (ancorché non sufficienti), perché quella di un tifoso non dovrebbe meritare la stessa reazione e la stessa nobiltà del gesto che impone una emozione come il dolore che prevale su quella della partita? Ci sono pesi diversi e morti diversi? Non ci rassegniamo a crederlo. E aspettiamo per questo di vedere se la giustizia tiene livellati i due diversi piatti.