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di Giovanna Pavani

Di certo l'anno appena trascorso è stato un anno di sangue. Come pochi dell’ultimo decennio. Per mesi e mesi, quasi senza soluzione di continuità, gli italiani sono stati ipnotizzati da gialli e delitti, da crimini efferati che dalle pagine dei giornali sono rimpallati dentro la televisione, enfatizzandone i particolari e rendendo sempre più difficile trovare una ragione per spiegare che cosa stesse davvero succedendo. Il 2007 passerà alla ormai labile storia dei mutamenti sociali come un anno stregato dalla cronaca nera. Solo un anno fa qualcuno (ancora pochi, a dire il vero) si appassionava cercare di capire se davvero Anna Maria Franzoni avesse ucciso o no suo figlio Samuele a Cogne. Poi è arrivata Erba, quindi Garlasco e poi Perugia, passando per l’omicidio Reggiani a Roma e l’ultimo, orrendo, di Iole Tassitani a Venezia. Una scia di sangue che, salvo rare eccezioni, ha un comune denominatore inquietante: l’impunità degli assassini. Se a Erba non ci fosse stato un sopravvissuto, se una donna rumena non avesse fatto il nome dell’assassino della Reggiani e se per Iole Tassitani non ci fosse stato un testimone “quasi” oculare del rapimento, anche questi delitti sarebbero rimasti senza autore. Le tecniche investigative, negli ultimi anni, hanno fatto passi da gigante, ma quello che la cronaca quotidianamente ci riporta è una frammentazione di piccoli dettagli, di analisi quasi fantascientifiche su tracce di secrezioni umane che poi, almeno nei telefilm, si ricompattano sempre in un unico scenario, andando a coprire i tasselli della narrazione di una vicenda che portano gli investigatori verso la chiusura del cerchio e la cattura del colpevole.

I delitti irrisolti del 2007 ci hanno fatto capire, se non altro, un’altra verità che tendiamo ad allontanare dalla mente per far spazio alla solita, troppo umana, speranza di un “lieto fine”: per inchiodare un assassino, o tanti complici di un solo omicidio, non basta il Ris di Parma, né altri mille sofisticati mezzi di indagine. Ci vuole qualcuno, un testimone credibile che dica “io l’ho visto” in tribunale, oppure la confessione dell’assassino stesso, messo spalle al muro dal ritrovamento dell’arma del delitto. Altrimenti si può andare avanti anni e vedere la verità che latita con la stessa leggerezza dei colpevoli. Al massimo si potrà sperare in qualche processo indiziario, che non ha mai messo in galera nessuno e mai per troppo tempo.

Ne emerge un convincimento di impunità, di possibilità di farsi beffe della legge e della giustizia, che fa dare quasi per scontato che si possa fare qualunque cosa perché tanto non ci prenderanno mai. Ormai tutti sanno cosa bisogna fare per non lasciare tracce, come bisogna muoversi, come far sparire una scomoda arma del delitto, come negare sempre tutto, anche davanti all’evidenza, laddove le manette si avvicinassero troppo ai polsi. Una lezione che il giovane ex fidanzato di Chiara Poggi, il glaciale Alberto Stasi da Garlasco, provincia di Pavia, deve aver studiato nel dettaglio. Da mesi, a dispetto di ogni evidenza, questo biondino studente di economia, insiste nel proclamarsi innocente. Forse lo è, forse no. L’arma del delitto non si trova, le tracce di sangue non sono sufficienti ad inchiodarlo e gli inquirenti si sono attaccati al suo computer nel disperato tentativo di smontare il suo alibi e farlo crollare. Speranza vana. Salvo colpi di scena, Stasi subirà un processo, ma le possibilità che finisca dentro sono remote.

Diceva un vecchio poliziotto che indagava sui delitti del mostro di Firenze, ormai tanti anni fa, davanti alla sua polverosa scrivania in un ufficio buio della Questura: “O un delitto si risolve nelle prime 72 ore, oppure possiamo dimenticarci di beccare il colpevole per tutti i tempi a venire”. Per il mostro di Firenze, in fondo, è andata proprio così. Dal ’68 all’’85 sono state uccise 16 persone, otto coppie. E a parte i grotteschi processi agli ormai defunti “compagni di merende”, ancora oggi non si sa chi fu l’autore. Su un’epopea di sangue lunga diciassette anni sono stati scritti decine di libri, centinaia di pagine di giornali e impegnati uomini e mezzi come forse in nessun’altra indagine criminale degli ultimi cinquant’anni del secolo scorso. Senza esito. L’unica certezza è risultata essere l’inutilità di Pier Luigi Vigna.

Eppure, si dirà, da allora di passi avanti nelle tecniche investigative ne sono stati fatti di enormi. E forse, se all’epoca ci fossero state le analisi sul dna dei reperti, chissà che gli assassini non sarebbero spuntati fuori. Ma a ben guardare l’oggi, dove a due mesi di distanza dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia non si riesce ancora a capire quanta gente ci fosse quella sera in quella casa e a fare cosa, è più che lecito il dubbio sul valore reale di queste minuziose indagini se poi quel che serve davvero, al fine del processo, non si riesce a tirare fuori dai vetrini di un microscopio. Non c’è nessun dna che “inchioda” l’assassino, come molti cronisti d’assalto ( o della domenica) talvolta ci propinano per dare il senso di una svolta nelle indagini. Se l’assassino non confessa – e soprattutto non si trova l’arma del delitto con quel dna spalmato sopra - poi al processo gli avvocati del presunto assassino si divertiranno come matti a smontare qualsivoglia tesi colpevolistica degli inquirenti. E con ragionevole speranza di vittoria.

Metti, poi, il caso che non ci sia un movente. O che il movente sia talmente labile, fatto di un’emozione del momento o di un’ossessione ad alto tasso di stupefacente, da rendere fragile qualsiasi ricostruzione dell’accaduto. Che movente poteva avere Alberto Stasi? E Rudy Guede, il famigerato “quarto uomo” di Perugia (ma non è detto che sia l’ultimo): perché avrebbe ucciso Meredith, con la quale aveva appena avuto un rapporto sessuale? Perché lei non voleva partecipare a giochi perversi che prevedevano l’ingresso in scena anche della sua coinquilina Amanda Knox e dell’imberbe fidanzato Raffaele Sollecito? Chissà. Certo, come ci insegna il delitto di Erba, la banalità del male talvolta è talmente immediata, gretta e piccina che il non fidarsi del proprio prossimo, in particolare se ombrosi vicini di casa, dovrebbe diventare un comandamento evangelico. Perché Rosa Bazzi e Olindo Romano non avevano poi un movente così forte per trucidare l’intera famiglia del terzo piano, compreso il piccolo figlio di Azouz Marzouk: semplicemente la famiglia faceva troppo rumore, c’era qualche rancore di pianerottolo e troppi coltellacci da cucina a portata di mano. Tutto qui. Ma anche in questo caso, se non fosse sopravvissuto uno dei componenti della famiglia, chissà quanto tempo ci avrebbero messo prima di inchiodare quella pacifica coppia di assassini di mezza età, misantropi e xenofobi più di tutta la cittadina di Erba messa insieme.

C’è la convinzione che i delitti ancora irrisolti che hanno tempestato questi dodici mesi di sangue rimarranno tali ancora a lungo. E il perché non va cercato nel fatto che, forse, gli investigatori sono sopravvalutati o che i magistrati che seguono le indagini sono degli inetti. La convinzione di un’impunità possibile per gli assassini e l’omertà diffusa nella società, di gente pronta a negare di aver visto pur di non essere coinvolta, rendono sempre più complicate le soluzioni dei delitti. La scienza aiuta, ma non può risolvere. In una società ormai scollata, sempre più chiusa in se stessa e dove tutti guardano troppi telefilm perché stanno troppo chiusi dentro casa, diventare un potenziale assassino o una potenziale vittima è più facile di quanto si pensi. La lunga scia di sangue che ha segnato il 2007 è lì a confermarcelo: che questi delitti sono svuotati di ogni senso, che sono schegge di follia e che le vittime difficilmente conosceranno giustizia. Ci vuol niente per far diventare anche questo un’abitudine…