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di Agnese Licata

Berlino: chilometri di rete ferroviaria suburbana, 3.000. Milano: 180. Basta questo semplice confronto per misurare la distanza tra il sistema dei mezzi pubblici italiani e quello del resto del mondo industrializzato. Certo, Berlino ha più del doppio degli abitanti di Milano e può vantare una superficie maggiore di quasi cinque volte. Eppure, niente basta a giustificare il fatto che la più importante metropoli italiana, il centro che ogni giorno attrae - per lavoro e studio - migliaia e migliaia di persone, abbia una rete ferroviaria così poco ramificata sul territorio circostante. E come Milano, anche Roma, con i suoi 188 km, e Torino, con appena 117 km di binari a collegare il centro città con i comuni confinanti. Non deve sorprende allora che, stando all’ultima indagine del Censis (svolta su un campione nazionale di duemila persone), il 70,2% dei pendolari italiani scelga l’automobile per i propri spostamenti quotidiani. Considerando anche coloro che preferiscono le due ruote, la percentuale di chi usa un mezzo privato arriva al 76%. Fatti i conti, ciò vuol dire che cinque giorni su sette quasi dieci milioni di persone salgono sulla propria auto e, da sole - con un enorme spreco di ricorse e relativo inquinamento - si dirigono verso le città dove timbreranno il cartellino o dove seguiranno le lezioni. Questo, spendendo in un anno quattro volte in più di quando spenderebbero scegliendo il treno o l’autobus. Contando esclusivamente il carburante (non considerando pedaggi autostradali e altre spese), usare l’auto arriva a costare 109 euro al mese, di contro ai 45 di chi sale su un autobus o ai 49 di chi opta per il treno.

Se milioni di persone fanno una scelta così anti-economica (oltre che stressante), una ragione deve esserci. Le comuni esperienze di ritardi, sovraffollamenti e sporcizia, tipiche dei treni italiani, non bastano, da sole, a capire il perché di una percentuale del genere. Bisognerebbe guardare a come Trenitalia, invece di lavorare per rendere più capillare la propria rete, invece di valutare razionalmente le zone dove si concentra la maggior parte degli spostamenti, butta milioni di euro nell’Alta velocità.

L’ultima ricerca del Censis parla chiaro: il pendolarismo italiano ha un carattere fortemente locale. Nell’80% dei casi, infatti, ci si sposta rimanendo all’interno della stessa provincia, percorrendo in media poco più di 24 km e impiegando in genere meno di 45 minuti. Solo il 4% dei pendolari vive in una regione e lavora in un’altra. La maggior parte non va da Bologna a Milano, o da Napoli a Roma, non si sposta da un grande centro urbano a un altro più grande. Per la maggior parte, invece, si tratta di lasciare la prima o la seconda cintura di piccoli comuni che circondano la città: Como, Lecco, Varese, Lodi o Bergamo, per dirigersi verso Milano, ad esempio. Si tratta di un fenomeno che, anno dopo anno, è andato accentuandosi, anche a causa di quella che viene definita “diffusione insediativa”. L’aumento dei prezzi degli immobili e degli affitti ha portato ampie fasce di popolazione a spostarsi nei comuni appena fuori dai centri urbani. Così, i residenti delle grandi città diminuiscono (-4,8% tra il 1991 e il 2006), mentre quelli dei comuni limitrofi aumentano: +9,3% per i comuni della prima cintura e +7,1% per quelli della seconda.

A questo “popolo” di cittadini, l’Alta velocità non cambierà la vita, anzi, indirettamente la sta peggiorando. Per riuscire a trovare i fondi necessari ai cantieri sparsi per mezz’Italia, infatti, Trenitalia “lavora” su due fronti: da un lato aumenta ogni trimestre i biglietti ferroviari (di Regionali come di Intercity ed Eurostar), dall’altro taglia costi superflui come quelli di manutenzione e, ovviamente, non pensa neanche lontanamente ad ampliare la rete suburbana.

I risultati sono evidenti e si possono leggere nei voti che i pendolari stessi hanno dato ai servizi offerti dalle Fs: puntualità 5,2 su dieci; disponibilità di posti (affollamento) 5,2; comfort a bordo 4,7; climatizzazione 4,4; pulizia 4,2; servizi igienici 3,7 (che fine abbiano fatto i fantomatici pulitori a bordo, nessuno lo sa). Il voto massimo (medio), non supera comunque il 6,9 e riguarda sicurezza e accessibilità della stazione. E dire che gli italiani non chiederebbero mica un Tgv alla francese per abbandonare l’auto e salire su un treno. Se si esclude uno “zoccolo duro” di pendolari non disposti a cambiare abitudini per vari motivi (pari a circa il 30% di chi non usa i mezzi pubblici), oltre il 69% degli altri si trovano costretti a usare l’auto per incapacità della rete o per le sue inefficienze. Il 38% di questi ultimi, ad esempio, sceglierebbe il treno il servizio coprisse anche la zona vicina al proprio comune di residenza. Per il 14%, invece, c’è un problema legato alla puntualità. Non è un caso che a scegliere l’auto siano più lavoratori (l’80,7%) che studenti (l’35,7%), essendo i primi maggiormente vincolati alla puntualità.

Invertire la tendenza, quindi, non sarebbe impossibile. A patto, però, di voler considerare seriamente un fenomeno che continua e continuerà ad espandersi. Nel 2001, si trattava di 9,6 milioni di persone. Oggi di 13 milioni, 3,5 milioni in più, ben oltre il relativo incremento della popolazione. Interessarsi a questo 22% d’italiani significherebbe non solo semplificare la vita a oltre un quinto della popolazione, ma anche: ridurre drasticamente l’inquinamento; diminuire il consumo nazionale d’idrocarburi, elemento non indifferente con il petrolio arrivato ben oltre i 100 dollari al barile; diminuire, probabilmente, anche gli incidenti stradali. Non sarebbe la panacea di tutti i mali, ma un buon passo avanti certamente sì.