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di Valentina Laviola

Squad Sbai si candida nel PdL. La signora – per chi non lo sapesse – è una donna marocchina che vive da trent’anni ormai nel nostro paese, che presiede l’Associazione delle comunità marocchine in Italia ed è anche membro della Consulta per l’Islam. A chi le fa schiettamente notare che si sta “mischiando” con i padri della legge Bossi-Fini, la signora, che dice di riconoscersi in una tradizione politica socialista, risponde: “Nessuno scandalo, io a destra sto benissimo”. D’altronde, ha ragione, perché “essere di destra” dovrebbe inficiare il valore delle sue battaglie? Forse sarà utile ricordare che nella passata legislatura la stessa Sbai e la sua associazione avevano scelto di sostenere la Lista Di Pietro; in una dichiarazione della stessa candidata si spiega il perché di questa inversione: “Al momento di formare le nuove liste elettorali abbiamo ricevuto molte visite sollecite, da parte di sigle diverse, ma nessuna di sinistra”. Che l’indifferenza della sinistra abbia colpito ancora? Tuttavia, è giusto che certi temi non rimangano appannaggio esclusivo di una forza politica, giacché richiedono risoluzioni congiunte a livello nazionale. Le opinioni della signora Sbai, nelle sue interviste di questi ultimi giorni di campagna elettorale e degli ultimi anni, sono peraltro in larga parte condivisibili. Non le manca certo il senso pratico nel portare a galla i problemi con cui gli immigrati di religione musulmana si scontrano quotidianamente, in particolare al centro delle sue lotte ci sono sempre state le donne ed è su quest’aspetto che vorremmo soffermarci. È importante, infatti, denunciare la mancanza di garanzie e tutele che caratterizza la situazione attuale.

Guardiamo a qualche esempio pratico: una donna che ottiene un permesso di soggiorno perché il marito vive in Italia, nel momento in cui lui decida di risposarsi, per la legge italiana perde ogni diritto e torna ad essere clandestina; non solo: il suo matrimonio, avvenuto fuori dall’Italia, è come se non esistesse più, perciò non sussiste la possibilità di chiedere il divorzio né ottenere alcun tipo di alimenti. C’è da notare che nel diritto musulmano “classico”, ovvero quella serie di norme estratte direttamente dal Corano e quindi risalenti al VII sec. d.C., il matrimonio – nikah – non essendo considerato un atto religioso (come avviene fra i Cristiani), bensì un atto civile, un contratto, esso si compone anche di una vasta serie di regole e garanzie, tra cui il divorzio (secondo forme diverse).

Oggi, la poligamia è di fatto consentita in paesi europei come il Belgio, la Francia e la Gran Bretagna (dove si può chiedere addirittura un assegno familiare per ogni moglie “aggiuntiva”), mentre per la legge italiana rimane assolutamente illegale, sulla base della parità tra uomo e donna. Eppure, in alcuni casi (ricordiamo che si tratta di un fenomeno di nicchia) è praticata senza ostacoli, al massimo bisogna falsificare un documento. Ciò può avvenire a causa di un atteggiamento di generale lassismo nell’affrontare questo tipo di problematiche. È una pratica che fa quasi rabbrividire l’Italia cattolica, pertanto meglio ignorarla, tanto per non farci turbare; molti pensano che in fondo “siano fatti loro”, che “i musulmani sono abituati così, per loro natura, ad avere tante donne”.

Andrebbe allora precisato che nel mondo arabo si stima che la poligamia riguardi non più del 2% della popolazione. In paesi come la Turchia e la Tunisia è vietata da decenni e la recente riforma del diritto di famiglia marocchino (legge Mudawana) praticamente ne annulla la possibilità. Tuttavia, in Italia, risulta relativamente semplice, nonostante la nostra legislazione vada a cozzare anche con gli stessi termini posti dalla norma coranica. Questa, infatti, recita: “..sposate allora di, fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non esser giusti con loro, una sola” (sura IV, v.3). La norma coranica richiede esplicitamente pari trattamento per tutte le mogli sul piano economico, sociale, affettivo (tanto che alcuni ritengono che queste condizioni vogliano essere implicitamente scoraggianti, dal momento che l’equità risulta impossibile nella pratica). Il fatto stesso che lo Stato italiano riconoscerebbe solo ad una delle spose il ruolo ufficiale di moglie, rappresenta un impedimento chiaro al rispetto del principio d’uguaglianza.

Esiste, inoltre, un serissimo problema di alfabetizzazione fra le donne che provengono da zone rurali o economicamente depresse; invece di guardare ad un futuro migliore ecco invece che in Italia invecchiano senza saper leggere e scrivere, magari mentre nel loro paese d’origine il tasso di alfabetizzazione femminile si triplica. Abbandonare una minoranza della popolazione femminile nell’ignoranza più totale significa negare loro l’accesso ai diritti più elementari, anche solo a conoscere di avere dei diritti. A causa di un atteggiamento irresponsabile si rischia di creare le condizioni per il ritorno di un patriarcato primitivo in alcuni contesti.

“Le nostre donne si velano solo in Italia” ha affermato la signora Sbai e a molti può apparire provocatoria, esagerata; eppure questo è uno di quei segnali che indicano come l’arrivo in Italia spesso determini un passo indietro. C’è chi sostiene che gli immigrati musulmani tendano, nel venire a contatto con una realtà diversa, a rimarcare alcuni aspetti per aggrapparsi alla propria identità, ma la tesi della candidata alla Camera è diversa: non è l’Islam a prevedere l’uso del velo, bensì un atteggiamento anti-donna che in Italia trova maglie larghe in cui inserirsi. Come sempre, è quando si lasciano vuoti giuridici che si aprono la possibilità e lo spazio sociale ove le ingiustizie si consumano. Nell’indifferenza generale.