Stampa
di mazzetta

Se in Turchia i sindacati hanno festeggiato il primo maggio resistendo a furiosi assalti della polizia, impegnata fin dal mattino ad attaccare le sedi dei sindacati ad Istambul e poi, per il resto della giornata, a sparare migliaia di lacrimogeni, mentre in tutto il paese pestava ed arrestava chi provava a manifestare, in Italia le manifestazioni per la festa dei lavoratori sono passate senza particolari emozioni: placido il concertone di Roma, placide le manifestazioni dei sindacati e placida anche la Mayday milanese. Tradizionalmente preceduta da un robusto fuoco di sbarramento di autorità e politici locali che prevedono brividi, terrore e raccapriccio per le strade di Milano, la grande manifestazione del precariato si è invece snodata per le vie di Milano serena, colorata ed imponente. A sfilare era il popolo del precariato metropolitano, che ormai da anni ha eletto questo appuntamento come momento di sintesi e d'incontro misconosciuto dalla politica ufficiale. Strano destino quello della Mayday, nata a Milano nel 2001 e ormai diventata europea: quest'anno ha raggiunto l'estremo Oriente, sbarcando anche a Tokyo, ma continua a passare in sordina sui media italiani, o a non passare proprio. L'auto-organizzazione precaria non piace; non piace ai media che in quanto industria si fondano sullo sfruttamento di legioni di precari e non piace ai partiti, nemmeno a quelli di sinistra che con il precariato si sono riempiti la bocca solo per aggiungere delusione al già gramo destino dei precari italiani. Ancora meno piace ai sindacati, più preoccupati di mantenere buoni rapporti con le elite e di curare il loro consenso ormai fondato sull'attenzione ai pensionati più che alla condizione dei lavoratori attivi.

Mayday è cresciuta lontana dalle grandi organizzazioni, così come l'inchiesta e il contrasto al precariato sono nati e cresciuti dall'incontro di realtà di base, associazioni e singoli che negli ultimi anni hanno fatto da soli nella latitanza dei soggetti in teoria deputati. Mayday è cresciuta fino a diventare Euromayday e a coinvolgere decine di città europee, perché i problemi posti dal diffondersi del precariato hanno dimensioni ed origini e conseguenze, globali. Da qui l'esigenza di portare la ricerca e definizione di soluzioni al “male di vivere male” delle giovani generazioni, a livello europeo, incontrando le esperienze degli altri paesi e socializzando criticità, analisi e soluzioni.

Anche per questo Euromayday si è materializzata anche al vertice europeo di Aaachen, ricevendo un rude benvenuto dalla sicurezza tedesca nonostante precedenti del tutto rassicuranti sul piano dell'ordine pubblico. Purtroppo anche nel 2008 il grido dei precari si è perso nella rete, strumento comunicativo d'elezione della generazione precaria, suscitando poca attenzione e nessun dibattito sugli altri media; il dramma del precariato “tira” solo nella fiction, industria che mostra di gradire moltissimo le peripezie dei supereroi precari e le loro vite avventurose.

A Milano scendono regolarmente in piazza più di centomila persone, ma non fanno notizia se non sul piano della “sicurezza”. I giorni precedenti alla manifestazione i media locali ospitano una lunga litania di timori per l'ordine pubblico e quello immediatamente successivo è occupato discutendo delle scritte lasciate sui muri; poi basta. Provare per credere, nonostante siano state fatte solo due o tre scritte durante una manifestazione di decine di migliaia di persone che ha impegnato il centro di Milano per ore ed ore, anche quest'anno si è parlato solo di quello.

Il popolo della Mayday ormai ha capito e non se la prende troppo, preferisce sfruttare l'occasione per tessere relazioni, socializzare esperienze e prendersi una giornata veramente diversa da quelle di solito organizzate per lui da un paese che sembra aver perso la testa ed anche il cuore. C'è molto cuore invece alla Mayday; molto cuore, molta sofferenza e molta voglia di comunicare, di dimostrare che esiste un'umanità macellata dallo sfruttamento che non per questo è disposta a rinunciare alla propria dignità o alla rivendicazione di maggiore giustizia sociale.

Diversamente dal passato, in piazza non sfila il proletariato, ma un popolo che la prole non può permettersela, reso cosciente del proprio dramma non solo dalla sofferenza, ma anche dal possedere strumenti culturali un tempo inaccessibili alle classi subalterne. Strumenti che non si rivelano ancora efficaci nel contrastare e temperare l'avidità di chi è disposto a far pagare qualsiasi prezzo agli altri per guadagnare in proprio (avidità liberata dai profeti del liberismo e ora in procinto di provocare il primo genocidio del secolo per mano degli speculatori) ma che permettono di comprendere le radici delle ineguaglianze e di lavorare per porvi rimedio senza il rischio di rincorrere acriticamente soluzioni drastiche quanto incongrue o lasciarsi ammaliare dal guru di turno.

Sano realismo, discussioni sul piano della realtà, rivendicazioni praticabili che corrono il rischio di sembrare aliene solo per la diversità del nostro paese rispetto al resto d'Europa. Un vero e proprio handicap culturale separa la nostra classe dirigente da quella europea e a dimostrarlo c'è proprio l'approccio al dilagare del precariato. Non per niente un istituto ormai comune in Europa come il reddito di cittadinanza, da tempo reclamato dai seguaci di San Precario, non riesce ad attirare l'attenzione di nessuno. Non c'è una sola forza politica nel nostro paese che abbia avuto la forza e la voglia di proporre una misura di così fondamentale importanza sociale al pubblico dibattito.

Probabilmente la spiegazione di questa stranezza risiede nel fatto che siamo davvero un paese vecchio, nel quale lo zoccolo duro del corpo elettorale vive la vita, i timori e i problemi di una popolazione anziana, barricata dietro robuste inferiate e formata ed informata al pensiero unico televisivo. Una realtà destinata a rimanere tale e quale ancora per diversi anni, almeno fino a quando durerà la dittatura televisiva nel nostro paese. I precari che sfilavano alla Mayday questo lo sanno, ma non per questo rinunceranno a reclamare reddito e vite che valgano la pena di essere vissute.