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di Rosa Ana De Santis

Sotto le onde del Mediterraneo affonda l’ennesimo barcone disperato, carico di vite e di stracci, di sogni e deboli pensieri di speranza. Muoiono sotto i fondali, in un silenzio d’abisso, nero petrolio, le vite di tanti poveri. Qualche disperato si aggrappa alle gabbie di tonni, tanti bambini rimangono dispersi tra le onde e di loro non sentiremo nemmeno una lacrima, non il più esile dei pianti. Qualche giovane più forte sarà portato al centro di accoglienza di Lampedusa che collassa sotto il crescente numero di sbarchi. E’ continuo il movimento delle motovedette, si susseguono senza tregua gli avvistamenti, è instancabile il lavoro dei soccorsi. Gli immigrati arrivano, non si arresta questa processione di speranza e disperazione. Nessuno ferma la diaspora della povertà. Tanti soldi per attraversare il mare su una zattera malmessa, una sporta per contenere una casa intera, a chi un figlio da tenere in braccio, a chi la memoria della famiglia lasciata lontano. Un mare di ricordi nei loro occhi, sulla pelle i colori e i segni della terra ormai troppo lontana: la loro. Perché anche loro ne hanno una. Lo dimentichiamo sempre.

Tutto questo scenario di umanità affoga o sopravvive mentre il governo fa i proclami sul reato di clandestinità e a Berlusconi tocca l’ingrato compito di stemperare gli eccessi del popolo leghista per poter entrare in Vaticano senza troppi imbarazzi. A questo indecente teatrino rispondono indignati i missionari e lo fanno dalla prima pagina della loro agenzia.

All'agenzia di stampa Misna arriva nel fine settimana la lettera della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza Istituti Missionari e le parole di chi si sporca tonache e veli sui fronti più spietati delle guerre più sacre non lasciano spazi di compromesso. Davvero lontane dall’indigesto cerimoniale che ha paralizzato Roma per ascoltare i virtuosismi verbali degli inoperosi potenti sul dramma della povertà. Così dicono i missionari: “Siamo profondamente indignati perché persuasi che ogni attentato perpetrato alla dignità della persona si afferma come radicale negazione di un comune progetto di umanità che insieme abbiamo la responsabilità di costruire. La “criminalizzazione” dei migranti e il conseguente tentativo di farne il “capro espiatorio” per una crisi sociale che ha ben altre radici, ci amareggia e ci spinge a dissentire dallo “spirito” che sembra prevalere nella società. Ci sembra di riconoscere lo stesso “virus” che ha coinvolto, attraverso il crescente ricorso alla violenza e alla logica della competizione e della manipolazione mediatico-politica, il nostro tessuto sociale, minandone le difese “civili”.

Non desta meraviglia che l’agenzia di padre Albanese denunci senza tentennare che la criminalizzazione dei migranti occulta - e non troppo bene - una cultura che si nutre di discriminazione e anti-umanità, uccide gli elementari e irrinunciabili diritti di ogni persona, perpetua la condanna di Paesi già prostrati tanto da guerre quanto da violenti piani strutturali. Li condanna a morire, senza chiedere aiuto in un’impietosa cecità universale. Il presagio è funesto e racconta una storia fin troppo recente, il cui sangue gronda ancora.

La sub-cultura del confine che diventa barricata, fossato intorno al castello, crocifisso nelle scuole come grimaldello della cultura cristiana, spot serale delle pance gonfie che vernicia di bene le più indecorose delle iniziative cossidette solidali: quelle da un euro a messaggio, con stile da supermercato, i saldi della coscienza tra un acquisto e un altro. Tutto bene, tutto liscio in preghiera, il vespro tradizionale della sera per i bambini moribondi e affamati, appesi sulle porte delle chiese e lontani dagli usci delle proprie dimore.

Quello che la lettera dei missionari denuncia fa tornare il significato profondo di una delle analisi filosofiche più coraggiose sulla condizione del riconoscimento degli apolidi, migranti e profughi, una visione altissima di questa scomoda realtà politica ed esistenziale, alta al punto da trascendere il piano puramente storico. Così scriveva Hannah Arendt a proposito di profughi e migranti: “…individui costretti a vivere fuori di ogni comunità sono confinati nella loro condizione naturale, nella loro mera diversità, pur trovandosi nel mondo civile. (...) Il loro distacco dal mondo, la loro estraneità, sono come un invito all’omicidio, in quanto la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravvissuti.”

I morti in mare vicino a Lampedusa non sono forse le vittime di questa guerra invisibile che gli stati civili non riescono a risparmiare a chi non ha status di cittadino? A chi su quel confine non è più di nessuno e non ha più esistenza sociale? In quel momento preciso in cui non si è più cittadini si rischia di perdere la vita. Questa non è notizia per i nostri giornali, eppure é il più grande dei fatti.
Sono queste le lacrime di chi emigra, la stessa foto color seppia dei nostri italiani scaraventati da un viaggio infinito e penoso nelle braccia di una condizione di estraneità dalle proprie radici e dalla propria patria che diventava presto incertezza di identità, estraneità da sé, dispersione dell’identità su un filo spinato. Il confine, il centro di accoglienza, il controllo, fino ad arrivare all’inclusione o all’irrimediabile perdita di sé.

Se questa tensione tra lo status di cittadinanza e la migrazione è sempre stato un problema da disciplinare in sede teorica e pratica ed entrava insidioso e difficile nella dialettica tra nazionalità e cosmopolitismo, come intendere l’uno e l’altro, come proteggere i migranti da una lettura solo regolativa della cittadinanza universale che non potesse proteggerli e tutelarli qui ed ora sul confine, per noi è diventato cronaca di barconi sommersi, invito alla copertura poliziesca del problema, repressione del migrante.

Se parlare di cittadinanza globale non significa abdicare a una politica di regolamentazione di un fenomeno così grande e gravoso, significa prima di tutto voler sentire la ferita che ogni vita morta sotto il mare lascia nella storia contemporanea di ogni stato civile. Una storia che proprio non riesce a risolvere quello che accade nel viaggio da un paese all’altro, da confine a confine e oltre il confine. La globalizzazione copre furiosa quello che la sepoltura del cosmopolitismo impedisce di vedere ancora.

Ebrei di ieri, palestinesi e africani di oggi, romeni o rom, armeni o curdi, sono tutti li, orfani e senza passaporto. Fratelli per i missionari e i solidali, cittadini per chi a quel confine e a quel viaggio non toglie nemmeno per un momento sublime dignità e disperato coraggio. Per tutti coloro per i quali la parola e il gesto si tengono per mano, anche solo fosse per non affondare.