Stampa
di Mariavittoria Orsolato

Quattromila ragazzi, cinquanta etnie diverse e un pallone: quello che va in scena nel paese sconnesso del marchio agli innocenti, è un incubo per le camice verdi del ministro Maroni, un’oasi multiculturale per tutti quegli italiani che, tra impronte prese e moschee negate, pensano di essere capitati in un flash-back del 1938. Sono partiti lo scorso mercoledì a Casalecchio di Reno, provincia di Bologna, i Mondiali Antirazzisti, una kermesse calcistica organizzata dal Progetto Ultrà che si prefigge di abbattere confini e differenze culturali grazie al gioco del calcio, poderoso collante se usato a scopi benefici. Gli ultrà del progetto sopraccitato, infatti, non sono quelli che scaraventano motorini dai terzi anelli, o che accoltellano fuori dello stadio i tifosi della squadra avversaria, né assomigliano a quelli che preferiscono il saluto romano alla più coreografica "ola". I ragazzi che hanno organizzato questa manifestazione, giunta ormai alla sua dodicesima edizione, sono giovani e meno giovani il cui obiettivo è “contrastare i comportamenti intolleranti e xenofobi fuori e dentro gli stadi di calcio, attraverso la promozione di eventi e discussioni in cui si educhi all’antirazzismo, divertendosi e coinvolgendo il più possibile”. Non chiamateli hooligans, grazie. Perché troppo spesso si associa la parola ultrà all’immagine di scalmanati pronti a menare chiunque indossi dei colori diversi dai propri e non si pensa che - come in tutte le cose - esiste un rovescio della medaglia in cui si trovano altrettanti tifosi si impegnano nella direzione opposta, ovvero quella di rendere la competizione un terreno in cui la differenza è ricchezza. Uno spirito quindi che scoraggia la violenza e che si riflette anche nel regolamento della competizione, dove la squadra che fa due falli viene immediatamente battuta a tavolino e chi ha un atteggiamento eccessivamente competitivo viene sospeso dal torneo.

Sono ventotto differenti nazioni a rappresentare le duecentoquattro squadre di amatori pronti a sfidarsi nella quattro giorni che si concluderà oggi. Tra queste non potevano mancare le squadre, ben otto, composte da rom - protagonisti involontari della cronaca e di conseguenza della manifestazione sportiva - che ai Mondiali hanno un ruolo anche organizzativo: “La partecipazione della comunità nomade di Casalecchio è simbolica e rappresentativa dello spirito dei Mondiali Antirazzisti – spiega Carlo Balestri, coordinatore del Progetto Ultrà e organizzatore dell’evento - l’intento è far convergere le diversità. Tutto ciò che è contrastante: tifosi, spesso visti nell’immaginario comune come xenofobi, e migranti; abitanti del posto e persone venute da fuori. È un laboratorio contro la discriminazione”.

Un laboratorio a cielo aperto - la cornice è il parco Salvador Allende, incastonato tra i colli bolognesi - che sembra decisamente riuscito nelle sue intenzioni: attraversando i terreni di gioco è possibile sentire intrecciarsi lingue e storie sconosciute ed è bello vedere fisionomie così differenti piegarsi e uniformarsi nella comune smorfia di fatica che il gesto atletico e il caldo torrido impongono. Un caldo che non ha però fermato nelle intenzioni le centinaia di visitatori che in questi giorni sono confluiti a Parco Allende anche per partecipare ai vari workshop informativi che l’organizzazione ha preparato in ben 4 lingue diverse, tra questi anche una visita, riservata ai ragazzi tedeschi, dei luoghi della memoria antifascista sparsi sulla linea gotica.

Ma non saremmo in Italia se a questo siparietto idilliaco non si affiancasse la solita figuraccia internazionale. Tre squadre provenienti dal continente africano infatti, precisamente da Gambia, Repubblica del Congo e Ghana, si sono viste negare il visto d’ingresso dalle autorità italiane; motivo? L’organico del personale d’ambasciata era troppo scarso. Appeso ad una delle porte di gioco, uno striscione bianco e nero su cui campeggia un’intraducibile frase tedesca e una bella ragazza alza con un ghigno il dito medio, si presume contro i razzisti e gli intolleranti. Almeno qui, si pensa che ogni tanto un sano "vaffanculo" sia di dovere.