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di Valentina Laviola

“La gente dice che dovremmo integrarci, ma io sono nato a Wexford, sono irlandese e musulmano, questo non è un problema d’immigrati”. È Liam Egan a parlare, nativo della Repubblica d’Irlanda, appunto, e convertitosi all’Islam all’età di 28 anni. Nell’ultimo anno la sua famiglia è stata protagonista dei media locali, da quando Shekinah, 14 anni, la maggiore delle sue figlie, ha chiesto di indossare l’hijab a scuola. Permesso accordato, purchè fosse in tinta con l’uniforme; il preside, però, ha riportato la questione al dipartimento dell’Istruzione, affinché si provvedesse ad una politica ufficiale in merito, valida per tutte le scuole del Paese. Così, la faccenda si è allargata fino a divenire una controversia nazionale. Il signor Egan lamenta che l’atteggiamento verso la questione dell’hijab testimoni il modo in cui le minoranze sono trattate in Irlanda. In particolare, sostiene che diverse scuole si siano mosse per impedire il velo: un istituto di Dublino ha sostenuto che altrimenti sarebbe stata violata l’etica cattolica del Paese. Quest’ultima spiegazione, secondo Egan, non è altro che un pretesto, dal momento che le donne cattoliche si sono coperte il capo per entrare in chiesa fino a 20 anni fa. Un portavoce del partito laburista irlandese ha dichiarato all’Irish Indipendent che “gli immigrati che vengono in Irlanda devono conformarsi[…] le ragazze irlandesi non portano fazzoletti in testa. Una manifestazione religiosa di questo tipo è inaccettabile”. Il signor Egan e sua moglie, britannica di nascita, vorrebbero invece sottolineare che esistono ragazze irlandesi con il foulard sul capo e che non hanno meno diritti delle altre. Shekinah, intanto, non si è lasciata scoraggiare; anzi, si dice contenta perché in quest’anno si è fatta tanti amici, “Penso sia perché ho mostrato chi sono” ha dichiarato.

Abbiamo già assistito a controversie simili in Olanda, Francia, Gran Bretagna, ma siamo abituati a considerarle, appunto, “questioni d’immigrati”; questa vicenda, invece, risulta particolarmente interessante proprio perché porta alla luce una realtà spesso ignorata: esistono anche musulmani europei. Ciò ci costringe ad accettare che le società contemporanee non sono più “in bianco e nero”, sono multirazziali, multireligiose e multilingue.

Non possiamo più dondolarci nell’illusione che tutto sia prevedibile e scontato: ogni generazione non eredita il mondo dei propri genitori come un blocco fisso, ma deve affrontare sfide nuove, perché le condizioni cambiano in continuazione. Viviamo in un tempo estremamente veloce, siamo abituati a rincorrere il progresso scientifico e tecnologico, eppure esiste un fronte di resistenza mentale notevolissimo che si ostina a leggere la società contemporanea come se questa fosse la stessa dei decenni precedenti.

Premesso che il Profeta dell’Islam non impose il velo alle donne, ma che questo è entrato nell’uso in seguito ad interpretazioni successive del Corano, al giorno d’oggi potremmo auspicare che donne musulmane che vivano in un Paese e in un contesto sociale libero da costrizioni, possano esercitare il diritto di scelta al riguardo. Così come le cosiddette “donne occidentali” si fregiano della libertà di vestirsi come preferiscono, di esibire o meno simboli di qualsiasi genere. Invece no, quando si parla di Islam le regole cambiano: i più liberali e democratici fra i Paesi europei sono pronti ad escogitare leggi e proibizioni per impedire la libera espressione.

Poniamo il caso che l’hijab non rimandasse ad un significato specificamente religioso, che per qualcuno rientri semplicemente nelle proprie abitudini culturali, fino a che punto è nelle facoltà dello Stato imporsi? Alcuni sostenitori di queste misure legislative ritengono che impedire la manifestazione di simboli religiosi nei luoghi pubblici possa evitare tensioni e contrasti, ma si può solo reprimere l’espressione della gente, non le credenze.

Doveroso è assicurare che la scuola pubblica sia laica ed equidistante da ciascuna confessione, ingenuo è pensare che le persone possano lasciare fuori della porta il loro bagaglio culturale, nel quale rientra anche l’aspetto religioso. Perché non cogliere l’occasione allora, proprio all’interno della scuola, per costruire un terreno comune a tutti e imparare a confrontarsi sulle differenze? Quando i bambini di oggi avranno concluso i loro studi, si troveranno comunque a vivere in una società multiculturale e non potranno più far finta di non sapere se il compagno di banco è ebreo o ateo, dovranno saper convivere, con tutti.