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di Valentina Laviola

Circa una settimana fa è apparso sul Corriere della Sera un articolo dal titolo trionfale “Vivisezione, l’Europa salva le scimmie”, nel quale si elogiava l’intenzione della Direzione ambiente della Commissione Europea di rivedere la legge del 1986 in materia di sperimentazione animale, ritenuta ormai obsoleta ed inadeguata. È probabile, infatti, che ci saranno alcune interessanti novità che guidino verso un uso sempre minore, o quantomeno più mirato ed attento, delle cavie nei laboratori. Dal 2009 saranno vietati in tutta Europa esperimenti su animali per la produzione di cosmetici; il Belgio, addirittura, li impedirà per qualsiasi genere di prodotto, sigarette comprese. Per quanto riguarda gli animali randagi e da compagnia (cani e gatti) si dice che saranno esclusi, ma in Italia è già così. L’attuale legge 116/92 pone regole precise: vieta l’utilizzo di animali randagi o tanto meno prelevati dal loro ambiente naturale. I laboratori usano esclusivamente animali provenienti da appositi allevamenti, che ne garantiscono oltretutto le condizioni di salute. Per i primati, in particolare, si auspica che divenga obbligatoria in futuro la scelta di scimmie di seconda generazione, nate cioè in cattività da genitori in cattività. Tuttavia, dato che il tema risulta sempre molto caldo e suscita facilmente reazioni controverse, abbiamo ritenuto opportuna un’analisi più attenta della situazione attuale e di come potrebbe cambiare in futuro.

Per maggiore chiarezza, nonché affidabilità, siamo andati a porre alcune domande proprio ad un ricercatore, l’etologo Augusto Vitale. Partiamo dall’uso – o abuso – dei termini: in seguito ad una breve ricerca abbiamo constatato che la parola maggiormente ricorrente nei titoli della stampa e sui siti Web degli animalisti è “vivisezione”. Si usa, cioè, un termine da Medio Evo consapevoli della sua eco sensazionalistica e mediatica, per la sua capacità di evocare scene d’orrore; ma la vivisezione è davvero praticata ancora oggi? “La verità è che nessuno è autorizzato ad operare su un animale vivo senza che questo sia adeguatamente anestetizzato, proprio come avviene per i nostri chirurghi; è la legge a dichiararlo molto chiaramente”.

Il dr. Vitale propone la definizione più corretta di “ricerca invasiva” per tutti quegli interventi mediante i quali viene invasa, in qualche modo, l’integrità fisica dell’animale; questo, però, non significa necessariamente causare dolore, altrimenti non si potrebbero portare avanti esperimenti seri sui primati (causare sofferenza ad una scimmia porterebbe facilmente a risultati fallaci). Grazie al progredire delle conoscenze, infatti, siamo sempre più consapevoli dei diversi livelli di sensibilità degli animali e quindi delle possibili sofferenze fisiologiche e psicologiche; grazie a ciò possiamo applicare riguardi sempre maggiori alla loro salvaguardia.

Oggi la maggior parte della sperimentazione animale, circa il 60-70%, è dovuta al ramo della tossicologia, ovvero ai test che, per legge, si è tenuti ad eseguire sulle sostanze prima che queste siano immesse sul mercato. È una tutela studiata appositamente per proteggere la salute dei consumatori, cioè tutti noi. Lo stesso processo si ripete per una varietà sterminata di prodotti, così come per i farmaci. Per testare questi ultimi vengono coinvolte varie specie animali salendo via via la scala evolutiva, fino ad arrivare alla sperimentazione sull’uomo; diversamente, se fossero testati solo sui ratti, per esempio, l’esito non sarebbe affidabile per le persone, a causa delle differenze del nostro organismo rispetto al loro.

Negli ultimi anni sono state messe a punto alcune tecniche alternative: ad esempio, i test sui cosmetici (che rappresentano una percentuale minima del totale, circa il 2%) potrebbero essere oggi condotti su semplici strisce di pelle, tra l’altro molto più economiche. Un’altra frontiera, che permette di sostituire gli animali in alcuni campi, è quella delle colture cellulari in vitro, anche se non può sopperire del tutto alle esigenze sperimentali. Il dr. Vitale ci ha proposto l’esempio del morbo di Parkinson, spiegandoci che, di fronte ad una patologia tanto complessa, si può studiare in vitro solo l’aspetto chimico, mentre risulta indispensabile l’animale per verificare i danni provocati al livello cerebrale o muscolare. Ostacoli simili s’incontrano nello studio dell’AIDS, che non attecchisce in altre specie, quindi richiede necessariamente il coinvolgimento dei primati, più simili a noi.

Spesso i ricercatori vengono dipinti come sadici torturatori, un ritratto ingenuo e colpevole che non rende giustizia alle motivazioni di fondo né alla realtà dei fatti. È chiaro che rimane sempre, per chiunque e in qualsiasi campo, un margine di possibile illegalità, ma a vigilare su eventuali irregolarità sono preposti i NAS dei Carabinieri, mentre spetta al Ministero della Sanità accordare i permessi in materia di sperimentazione animale.

E’ utile ricordare che la legge italiana prevede un iter preciso: il ricercatore che intenda utilizzare delle cavie è tenuto a presentare una richiesta formale nella quale spieghi dettagliatamente il proprio progetto di ricerca (specificando a quali trattamenti l’animale sarà sottoposto) e ad allegare il proprio curriculum – quest’ultimo permette di verificare le sue reali competenze ed esperienza maturate nel corso di anni di studi in materia; parimenti, è tenuto a dimostrare di aver ottenuto i finanziamenti necessari. Il ricercatore in questione dovrà preoccuparsi oltretutto di rispettare le norme vigenti a livello internazionale ed adeguare i propri test alle metodologie dei colleghi; diversamente, il suo lavoro non troverebbe riscontro nella comunità scientifica. Occorre, cioè, un consenso accademico ampio e il rispetto di determinate regole.

Inoltre, all’interno di ogni laboratorio è presente, accanto al ricercatore, la figura del veterinario, responsabile di vigilare sulle condizioni di vita e di salute degli animali presenti: le norme, infatti, specificano le caratteristiche richieste per le strutture che li ospitano e la necessità di curarli nel caso in cui venga indotta loro una malattia, al fine di evitarne le sofferenze. Allo stesso modo la legge prescrive che la soppressione, laddove necessaria, avvenga con metodi “umanitari”, cioè tecniche scelte in base a studi specifici che non arrechino dolore o angoscia all’animale.

Dal momento che, ad oggi, la sperimentazione animale non rappresenta solo l’opzione più battuta, bensì l’unica via percorribile in molti casi, la strada per la messa a punto di tecniche sempre più innovative e meno invasive dovrebbe procedere di pari passo con l’adozione di un rispetto sempre maggiore verso gli animali utilizzati, in linea peraltro con l’Unione Europea che ha scelto di assicurare maggiori fondi a chi conduce ricerca in questo senso. Permangono alcune difficoltà, quali la lentezza con cui i metodi alternativi vengono riconosciuti come tali ed accettati in modo ufficiale. A questo scopo risulta utile la pressione sociale esercitata dalle associazioni animaliste che mantengono sempre alto il livello di controllo e la spinta verso un progresso etico.