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di Giovanna Pavani

Mario Spezi Il primo delitto fu nel 1968, l'ultimo nel 1989. Le vittime sono state venti e anche chi le ha materialmente uccise adesso è morto. Ma c'è un uomo, un giornalista, che passerà questa Pasqua in carcere perché accusato, dopo 38 anni, di essere uno dei mandati di quei delitti, i delitti del "mostro di Firenze". Mario Spezi, 60 anni, ex cronista giudiziario di punta de La Nazione è rinchiuso nel carcere di Perugia perché il gip del capoluogo umbro, Marina De Robertis, è convinta che sappia più di quello che dice; che addirittura abbia contribuito in modo robusto a depistare le indagini e che dunque sia degno della galera perché pericoloso e in grado, ancora oggi, di inquinare le prove. Su questa base sono stati negati a Spezi anche gli arresti domiciliari. Per quanto paradossale possa sembrare, il giornalista e scrittore che ha dedicato una buona fetta della sua storia professionale a questa vicenda oggi è l'unico "colpevole" dietro le sbarre per l'intera inchiesta sul "mostro". C'è un dato su cui, di certo, la Procura non sbaglia. Spezi è uno di quelli che sa di più sulla storia delle coppiette uccise sulle "dolci colline" intorno a Firenze. Due anni fa, infatti, è morto l'altro cronista fiorentino, alter ego all'Unità di Spezi, Giorgio Sgherri e Spezi si è ritrovato, in pratica, unico testimone vivente di una vicenda lunga più di un quarto di secolo. Perché anche Mario Vanni e Pietro Pacciani, gli assurdi "compagni di merende" processati e dichiarati autori materiali dei delitti sono morti entrambi, in primo per un ictus il secondo per un infarto. E infine l'inchiesta, nel corso del tempo, è passata di mano almeno quattro volte dopo lo smantellamento della "Sam", la squadra anti mostro creata all'interno della questura di Firenze quando a capo della procura c'era Piero Luigi Vigna. Alla fine, i faldoni con i fascicoli dei vari casi sono finiti sulla scrivania dell'ex responsabile della mobile fiorentina, Michele Giuttari, un poliziotto con la vena della scrittura che con Spezi, però, non è mai andato d'accordo. Anzi. Ruggini personali profonde che probabilmente trovano radici nel fatto che entrambi, il poliziotto e il giornalista, si contendevano con i propri libri sul "Mostro" un identico bacino di lettori, ma che sono andate anche oltre, quando Spezi ha deciso di contrastare nettamente la linea investigativa di Giuttari, tutta tesa a dimostrare che dietro i delitti del "mostro" ci fosse una setta massonico-satanica e che i mandanti altri non fossero che persone "di primo piano", a livello non solo locale ma addirittura nazionale.

Spezi non ci ha mai creduto davvero, perché per lui l'assassino delle coppiette doveva essere cercato altrove, meno in alto e più in basso. "Non ho il dogma della verità - ha spiegato Spezi a uno dei suoi difensori - ma dopo più di vent'anni di lavoro da cronista, sono convinto che la pista sarda sia la più accreditata". Spezi contro Giuttari: forse la chiave di questo arresto sta tutta qui, nella tigna del poliziotto di dimostrare di essere meglio del giornalista, sia come investigatore che con la penna. E la tenacia del giornalista di farsene un baffo delle fonti ufficiali decidendo di investigare da solo. Per poi scrivere un altro libro contrastando punto su punto le tesi di quelli che, da 38 anni, fanno solo buchi nell'acqua.
La pista sarda, dunque. E' l'asse portante del nuovo libro "Dolci colline di sangue" che Spezi ha scritto con Douglas Preston (anche lui indagato) e dove si parla di una villa in cui sarebbero nascosti indizi importanti per l'inchiesta, a partire dalla pistola calibro 22 che ha firmato tutti e dieci i delitti delle coppie e mai trovata. Una pistola particolare, quella, con un piccolo difetto sull'otturatore che finiva per marcare, in modo inconfondibile, i bossoli e che quindi è diventata l'indubbia firma dell'assassino. Trovarla avrebbe significato scoprire "il mostro". Il fatto che Spezi, grazie ad una fonte personale, un muratore sardo, si sia avvicinato a una verità più plausibile di quella degli investigatori, ha fatto probabilmente saltare il precario equilibrio che da anni consentiva la convivenza di più attori sullo stesso palcoscenico ed è scattata l'accusa di calunnia e depistaggio, anche se a tutti sembra abbastanza chiaro che la vera accusa che viene mossa a Spezi è quella di seguire una pista opposta a quella del Pm perugino. Che ha voluto fare le cose in grande, aumentando il carico contro il giornalista con un'altra accusa, ben più grave, quella di complicità nell'omicidio del medico perugino Francesco Narducci, coinvolto nella vicenda del mostro e scomparso nell'85. Il cadavere fu ritrovato nel lago Trasimeno.

Saranno i giudici a chiarire se davvero Spezi ha qualcosa a che spartire con queste accuse, ma intanto è preventivamente in galera, con un trattamento che il suo avvocato, Nino Filastò, non ha esitato a definire "da caccia alle streghe". E che, invece, ha tutto il sapore di una poco dignitosa persecuzione per lesa maestà investigativa.