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di Carlo Benedetti

Scontri, attacchi, polemiche dure, azioni di disturbo, violazioni dei principi di sovranità, prove di dialogo, rotture, sfide, chiusure, storie di martiri e compromessi. E' un lungo elenco di vicende e contrasti tra le diverse linee della curia romana e i vertici della Cina comunista… E sono storie dei (non) rapporti tra la "Città proibita" di Pechino e la "Casa di Pietro". Un contenzioso che dura da tantissimi anni e, soprattutto, da quella rottura del 1950, quando il governo cinese istituì una sua "chiesa" in opposizione a quella di Roma, ansiosa di mettere su casa in un paese ritenuto come un territorio dove poter espandere il dominio Vaticano. Ma a parte questo si può affermare che in Cina non c'è mai stata una vera e propria "religione" se si intende per "religione" quell'insieme di credenze relative ad un dio (o a più divinità), in relazione ad una concezione del destino umano, espressa in un'organizzazione ecclesiastica, con un rituale. La Cina, infatti, non è il paese delle religioni, ma è quello delle dottrine. E la storia, in tal senso, ci aiuta nel comprendere che i cinesi hanno sempre avuto tre religioni: il taoismo (fondato nel VI secolo a.C. da Lao-Tse), il confucianesimo (le cui origini sono pressappoco contemporanee di quelle del taoismo) e il buddismo. Tutti e tre questi "sistemi" in cinese, sono definiti come le "tre dottrine". E così è andata avanti l'evoluzione. Tanto che si può affermare che all'inizio del XX secolo nessuna delle tre dottrine aveva veramente dei fedeli: un cinese buddista poteva partecipare a cerimonie taoiste o popolari, così come, per esempio, un italiano di questo secolo può professare una filosofia atea, sposarsi in chiesa per poi battezzare i suoi figli e andare alla messa.
Comunque, prima della rivoluzione e della costituzione della Repubblica Popolare Cinese, c'era in Cina un clero importante: bonzi buddisti, religiosi taoisti, mandarini seguaci di Confucio. Tutti esercitavano attività sacerdotali classiche, sacrifici, invocazione degli antichi, tutti erano profeti, guaritori e quant'altro e, nell'insieme, le loro interpretazioni personali della dottrina alla quale aderivano, erano profondamente influenzate dalla religione popolare. Ma i problemi, per il mondo del cattolicesimo vaticano, cominciano con l'avvento dei comunisti al potere.

E' la lunga marcia di Mao che mette il Vaticano in posizioni di difficoltà e che, di conseguenza, obbliga il governo d'Oltretevere ad attuare una strategia d'attacco verso Pechino e la sua nuova dirigenza. E subito sono le "cifre" a parlare (pur se i dati statistici sono di varia provenienza e poco affidabili): alcune rilevazioni del 1951 indicavano in 150 milioni i buddisti, compresi quelli imbevuti di credenze popolari e che partecipavano a culti taoisti. Ma con Mao la fisionomia religiosa cambia. La rivoluzione estirpa le vecchie radici della società feudale: l'insegnamento respinge le superstizioni, l'idolatria, la stregoneria. Le sette buddiste e taoiste si rifugiano a Formosa. E Mao, nell'azione di lotta all'analfabetismo, si batte anche contro le superstizioni mistiche.
Con il Vaticano, quindi, nessun contatto diretto. Solo polemiche a distanza e timide prove di dialogo. Come quell'apertura del 1986 voluta da Deng Xiaoping - dopo il lungo inverno maoista - che vide riuniti a Pechino i rappresentanti di varie confessioni e Paesi. Un processo, quello, che si collocò sulla scia della diplomazia del "ping-pong" del 1970.
Sempre, comunque, con la Cina che accusa la Chiesa romana di servire le aggressioni del colonialismo e dell'imperialismo americano e di essere, da sempre, ostile alla nuova Cina, fomentando anche la formazione di strutture ecclesiali antagoniste. Una posizione, questa, che era già stata ampiamente affermata nel 1982 quando il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese invitò a "schiacciare con durezza " le comunità clandestine che "con la scusa della religione fanno dello spionaggio distruttivo".
Tutto va quindi visto nel quadro di una situazione "religiosa" che può essere così fotografata: vi sarebbero in Cina circa 30 milioni di musulmani che sono considerati minoranza etnico-religiosa (hui). Fra i tibetani e i mongoli, il lamaismo ha ancora un ruolo importante. I cristiani sarebbero poco più di due milioni. Ed è appunto su questa minoranza che il Vaticano punta da sempre le sue carte per aprire un varco alla sua penetrazione. I fondi, ovviamente, non mancano. Ma Pechino teme un'espansione-invasione vaticana e in questo trova appoggi nelle gerarchie delle altre religioni già presenti in forza sul suo territorio.

Di qui lotte e polemiche che si vanno accentuando sempre più, con un regime cinese che costringe ad occultare i legami con la sede apostolica e con una curia vaticana che da lontano non comprende le scelte di Pechino. Eppure si era cominciato a parlare di un possibile disgelo a partire dalla fase finale dell'èra wojtyliana sino all'inizio di questo pontificato di Benedetto XVI. C'era stato, di recente, un fatto emblematico: il governo cinese aveva riconosciuto e approvato l'ordinazione di vescovi ufficialmente nominati dal papa, dopo che per decenni aveva impedito o almeno contrastato ogni "ingerenza" vaticana. E ancora: nel periodo tra la morte di Giovanni Paolo II e i primi giorni del nuovo pontificato, l'ambasciatore cinese presso il Quirinale Dong Jinyi e il viceministro degli Esteri cinese Zhang Yesui, erano stati ricevuti in Vaticano per colloqui informali con alti funzionari della segreteria di Stato.
Ma nonostante tutte le prove di dialogo, lotte e polemiche continuano. Le ultime sono delle settimane scorse. Quando a fine aprile Pechino "ordina" due vescovi - Giuseppe Ma Yinglin e Giuseppe Liu Xinhong nello Yunnan e a Wuhu, provincia dell'Anhui.
Tutto avviene al di fuori delle regole vaticane. E il portavoce del Papa Joaquin Navarro Valls in una dichiarazione precisa che: "La Santa Sede ribadisce la necessità del rispetto della liberta della Chiesa e dell'autonomia delle sue istituzioni da qualsiasi ingerenza esterna". E come conseguenza dell'azione di Pechino il Vaticano fa presente che "tali iniziative non soltanto non favoriscono il dialogo, ma creano anzi nuovi ostacoli contro di esso''. E così, mentre il pragmatico Hu Jintao tace, da Roma si fa sentire Papa Ratzinger il quale (lo spiega il portavoce Navarro) ''ha appreso le notizie con profondo dispiacere - poiché un atto così rilevante per la vita della Chiesa, com'è un'ordinazione episcopale, è stato compiuto in entrambi i casi senza rispettare le esigenze della comunione con il Papa''.
Ed è di nuovo guerra tra Vaticano e Pechino: la grande muraglia si allunga.

Nella parte cinese - di conseguenza - si ritrovano 103 vescovi cattolici, 2.840 preti, più di cinquemila suore, più di duemila seminaristi che studiano in 36 seminari ufficiali e 10 underground. Il numero dei fedeli (sia quelli "ufficiali" che quelli che fanno riferimento a comunità non registrate) si dovrebbe aggirare, secondo le stime più accreditate, intorno ai 12 milioni. Cifra ben superiore a quei tre milioni di cattolici che c'erano nel 1949 prima dell'avvento di Mao.
C'è in prospettiva, intanto, anche l'uomo del Vaticano che dovrebbe occuparsi del "dialogo". E' il cardinale Joseph Zen Ze Kiun (74 anni) vescovo di Hong Kong ritenuto un profondo conoscitore della Chiesa in Cina, ufficiale e non ufficiale.
Ma a Pechino c'è già chi teme questo nuovo personaggio che potrebbe avere sul Paese lo stesso effetto che Solidarnosc con Wojtyla ebbe sull'Europa dell'Est.
E così - mentre continua l'azione di pressing politico-diplomatico per un viaggio di Ratzinger in Cina (alimentata dal ministro degli esteri vaticano, monsignor Lajolo) - il potere di Pechino insiste nel chiedere al Vaticano di rompere con Taiwan e di cessare ogni forma di ingerenza negli affari cinesi.
Non si può predire il cammino esatto che la storia seguirà. Pechino e Vaticano sono due chiese. Del silenzio.