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di Sara Nicoli

auditel Un conto è pensarlo. E fare in modo che quel pensiero si trasformi in una gestione politica di una rete tv senza, tuttavia, agire in modo tanto sfrontato da poter essere poi accusati di fare uno sporco doppio gioco. Altra cosa è dichiarare, con l'arroganza tipica dell'uomo, quello che pochi giorni fa ha espresso il direttore di Raduno, Fabrizio Del Noce. Che davanti ad un attonito consiglio d'amministrazione Rai se n'è uscito teorizzando "la necessità di un continuo equilibrio tra Rai e Mediaset, perché troppi punti di vantaggio per una rete o per l'altra non vanno bene per il sistema televisivo". O meglio: non vanno bene a Mediaset. In pratica, il direttore della rete ammiraglia della televisione pubblica ha proposto, da manager pubblico, il concetto di "parità" di risultati con l'azienda avversaria per eccellenza, il che già di per se non può che essere considerato aberrante secondo le più elementari regole di mercato. Ma il fatto più grave è quanto la frase di Del Noce sottintende: vi si legge chiaramente l'analisi secondo cui Mediaset riesce a vivere (e anche molto bene, visti gli ultimi bilanci) solo perché la Rai è tenuta sotto stretta sorveglianza e con le risorse sempre al limite della sopravvivenza. Cosa si ottiene? Da un lato si lasciano ampie risorse alle reti del Presidente del Consiglio, dall'altro s' indebolisce non solo la Rai in quanto "competitor" ma quello che essa rappresenta, ovvero il concetto di servizio pubblico radiotelevisivo.

Questo meccanismo infernale di divisione di risorse e di precari equilibri gestionali ha un arbitro la cui parzialità è discutibile: l'Auditel. Quotidianamente Mr Auditel sposta miliardi di pubblicità da una rete all'altra, da un programma all'altro, muovendo percentuali d'ascolto anche infinitesimali, ma basilari affinché gli inserzionisti delle grandi aziende decidano di investire su un fronte anziché su un altro. Nel corso degli anni il meccanismo si è raffinato a tal punto da essere diviso per fasce orarie, per tipologia di programma, per "appeal del conduttore", per bacino d'ascolto rispetto ad una particolare fascia di pubblico e così via. L'intero sistema televisivo, insomma, è come un sistema di pianeti che si muove intorno al Sole-Auditel. E gli inserzionisti, almeno in apparenza, credono bovinamente a quanto l'Auditel quotidianamente analizza, così come chi dipende massicciamente dalla tv è portato a vedere un programma anziché un altro, perché l'Auditel ha decretato che quella trasmissione è piaciuta a quindici milioni di suoi compatrioti, e allora si mette davanti al piccolo schermo non solo per capire il perchè, ma anche solo per farsela piacere un po' e non sentirsi poi così diverso dagli altri.

Un meccanismo infernale, poco chiaro, che "misura" consensi e quindi incanala risorse in un senso o in un altro. E' il vero signore della televisione. Ma chi è davvero?

L'Auditel è un consorzio composto dalle maggiori aziende televisive e dall'Unione Pubblicitari e gli azionisti principali, manco a dirlo, sono proprio la Rai e Mediaste. Fin qui potrebbe non esserci nulla di strano; ogni azienda decide in modo del tutto autonomo come fare analisi di mercato e a chi far svolgere i sondaggi d'opinione. All'epoca della nascita del duopolio tv (primi anni '80) l'idea del consorzio tra i principali attori dello scenario televisivo nazionale venne considerata un'idea strategica, perché permetteva a tutti di avere uno strumento che consentiva un indubbio risparmio economico e, allo stesso tempo, permetteva una gestione più "casalinga" dal punto di vista politico. Inoltre il cosiddetto "target" di riferimento dei sondaggi era stato composto prendendo i tabulati degli abbonati Rai, scegliendone un certo numero di "abbonati in prima fila" per provincia (senza grande attenzione al sesso, all'età, al titolo di studio, al nucleo familiare di riferimento, al reddito ecc…) e inserendo nel loro telefono, previo consenso in cambio della sola gloria, un modem capace di dialogare con un computer centrale (sede Roma, poi Milano) dedicato alla raccolta dei dati d'ascolto e alla loro successiva elaborazione.

Questo era agli esordi . Il guaio è che non è cambiato molto, a parte qualche guizzo tecnologico in più. La composizione del campione di riferimento dell'Auditel non è mai stata resa nota per motivi legati a un ridicolo "segreto industriale" (o per evitare tentativi di corruzione dei "giurati"). La raccolta dei dati avviene ancora attraverso un modem telefonico che, ovviamente, non è in grado di sapere se davanti a un televisore acceso su un determinato canale c'è veramente qualcuno che lo guarda oppure no e cosa ne pensa, le analisi sono sempre a livello quantitativo e mai qualitativo di un determinato programma. Insomma, un sistema che in nessun altro Paese del mondo potrebbe essere considerato una base d'appoggio credibile per spostare quel pozzo di quattrini in spot che, invece, l'Auditel sposta ogni giorno.

Perché, invece, noi ci crediamo? E perché, soprattutto, ci credono gli investitori pubblicitari? La risposta è semplice: il popolo tv potrà anche credere davvero che "L'Isola dei Famosi" l'hanno guardata in quindici milioni di persone, ma ai pubblicitari e a chi fa la televisione è sufficiente che l'Auditel, democraticamente, alla fine finisca sempre per dispensare equamente share e punti di ascolto; una volta il programma di uno, una volta il programma dell'altro ( spesso anche contro logica … ). E il sistema rimane magicamente in equilibrio. Come non vuole più la Rai (ma è costretta ad accettarlo perché non ha soldi) ma come vuole intensamente Berlusconi, che con la legge Gasparri e il digitale terrestre ha solo tentato di aumentare i modi (attraverso nuovi canali) per guadagnare dalla pubblicità, ma non ha mai messo in discussione l'Auditel e i suoi meccanismi di rilevazione d'ascolto. Sarebbe da chiedersi il perché….