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di Rosa Ana De Santis

La storia è accaduta a Milano e riguarda una bellissima cittadina italiana, di 21 anni, laureanda in beni culturali, preparata e molto bella. Sara è figlia di egiziani e indossa il velo islamico. Non quello che copre il volto e impedisce di identificarti, ma il classico hijab. Non trova un lavoro saltuario, nemmeno la distribuzione di volantini per strada e la sua disoccupazione totale non è dovuta alla crisi del mercato del lavoro.

Le accade addirittura, nella sua città, che un’azienda che si occupa di eventi sia arrivata a scriverle nero su bianco che l’impedimento per assumerla era dovuto al suo rifiuto di togliere il velo. La vicenda è ora arrivata al Tribunale di Lodi dopo che Sara si è rivolta ad uno studio di avvocati specializzati in discriminazione razziale: perché di questo si tratta.

L’azienda in questione deve innanzitutto aver dimenticato che Sara è italiana e che con quella mail, Costituzione alla mano, avrebbe creato un caso normativo grave e che il velo; poi che il velo è un segno culturale e religioso distintivo, non può inficiare in alcun modo i motivi di un’occupazione se non perché esiste un diffuso pregiudizio, in modo particolare nei riguardi dei musulmani.

L’azienda scrive infatti a Sara che i clienti “non sono flessibili”, dove flessibile sta per tolleranti o non razzisti. Se avesse indossato una bella croce al collo come molti italiani, non avrebbe avuto problemi, forse perché un italiano è per definizione cristiano-cattolico, forse perché non si pensa che all’ateo potrebbe dare altrettanto fastidio o magari, pietosamente, perché esistono religioni lecite e religioni di serie B.

Il caso di Sara e la sua brillante determinazione a far nascere una questione di pubblica attenzione ci ricorda innanzitutto l’arretratezza culturale in cui l’Italia è ancora amaramente immersa. Altro che non siamo razzisti. Basta andare in una qualsiasi città europea, persino la Londra colpita al cuore dal terrorismo islamico, e vedere ovunque ragazze in chador nei negozi, nelle librerie, nelle boutique senza che questo susciti nemmeno più attenzione o stupore.

Ci ricorda infine quanto siano numerose, magari spesso taciute e nascoste, le discriminazioni che patiscono le persone portatrici di una differenza. Oggi è il velo di Sara e una scelta religiosa, ma potrebbe essere la “pelle nera” o il Tilak, il terzo occhio degli indiani, magari succederà un po’ meno per la Kippah degli ebrei, ma in Italia tutto è possibile.

Certo è che da noi chi non rientra nel canone dell’italiano medio spesso non lavora o, comunque, raramente in posizioni che non siano umile manodopera, anche quando il candidato ha il profilo giusto, magari anche migliore di quello degli italiani concorrenti.

Non c’è da stupirsi se l’immigrazione non riesce ad essere digerita dalla società italiana, se nemmeno per una ragazza che è figlia di questo Paese e che è italiana a tutti gli effetti si riesce ad onorare il minimo dovuto dei diritti costituzionali.

La vicenda è grave e nello stesso tempo grottesca perché il paradosso della discriminazione aziendale subita da Sara è che i clienti sono davvero “poco flessibili”. Il ritratto è impietoso, ma non falso. E allora forse proprio per questo le persone come Sara devono essere assunte.

Non solo perché così esige la legge, perché i suoi genitori lavorano da mezzo secolo per la nostra economia e pagano le tasse a questo paese. Ma perché le persone vanno educate in ogni modo possibile.

Del resto questa è la stessa Italia che tra il 2010 e il 2011 ha collezionato il 35% di discriminazioni a danno di persone con disabilità, soprattutto nelle fasi di inserimento occupazionale. Questo il risultato della ricerca DIVERSITALAVORO che racconta di come anche in questo caso sia la differenza a scatenare paura e diffidenza nel cliente quando magari incontra un impiegato in carrozzina.

Sempre lui, il cliente poco flessibile come lo chiamerebbe l’azienda portata in tribunale da Sara. Il cittadino medio, razzista nella pancia e patriota davanti alla partita di calcio o nei respingimenti in mare dei disperati: il peggior marchio dell’italietta che non cambia mai.