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di Alessandro Iacuelli

L’esercito a Napoli non è un tabù, dice il Ministro di Grazia e Giustizia, sollevando cori di assenso e di dissenso. C’è chi si chiede se sia utile, o risolutiva, una missione a Napoli delle Forze Armate. Che sia utile sul breve termine, per tamponare in qualche modo l’emergenza criminalità, potrebbe esser vero, che sia risolutiva ci sono molti dubbi. Da più parti, anche nella stessa Napoli, si sta confondendo spesso - e non sempre in buona fede - l'emergenza microcriminale che dilaga in città ed in provincia, con la cosiddetta "emergenza-camorra". Di sicuro una massiccia presenza militare nelle strade può scoraggiare alcuni microcriminali, ma non è certo una missione delle Forze Armate che può sanare il problema sociale di una metropoli che, compresa la cintura dei comuni di periferia, tocca i 3 milioni di abitanti. Già nel 1993, la Commissione Parlamentare Antimafia scriveva: "L'opera di contrasto alla criminalità organizzata non può fondarsi sulla sola repressione, in quanto le organizzazioni hanno profonde radici sociali che non è pensabile recidere solo con l'uso della forza dello Stato. Oltre all'antimafia dei delitti, che consiste nella repressione penale è necessaria, specie nelle zone a più alto disastro sociale, l'antimafia dei diritti, fondata sulla socializzazione del territorio."

Tutti i territori dominati dalle organizzazioni camorristiche presentano allo stesso tempo un grave stato di crisi sociale e un'altrettanto grave fragilità istituzionale. La camorra moderna, infatti, produce essa stessa entrambe le caratteristiche: il malessere sociale mette in grado i clan di accreditarsi, ponendosi come risolutori dei problemi del vivere quotidiano, come fonte di reddito, la fragilità istituzionale consente di manovrare burocrati, amministratori e spesa pubblica. Per questi motivi, la camorra non teme l'esercito. Teme semmai la funzionalità delle amministrazioni pubbliche, la socializzazione del territorio, le opere di educazione alla legalità.

Un ragazzo povero, dei quartieri più disastrati di Napoli o della sua provincia, ma anche del casertano, senza istruzione e senza possibilità di averla, senza dignità (perché non gli è stata garantita da chi esercita potere politico), obbligato ad un lavoro minorile che è tanto severamente vietato quanto serenamente tollerato, può diventare disposto a tutto, spesso manovalanza, non importa se armata o meno, di questo o quel clan.

L'ondata di criminalità che sta colpendo Napoli è figlia di questo sistema dominante in tutta l'area. Non solo il tanto contestato indulto ha riportato nelle strade un esercito di disperati, ma c'è anche dell'altro, una motivazione più profonda e che risiede nella struttura stessa delle organizzazioni criminali campane. Rispetto a mafia e ndrangheta, la camorra ha una propria specifica aggressività nei confronti della società stessa. A differenza della cupola siciliana, la camorra non è una singola organizzazione: esistono circa 200 clan separati, su territori diversi, spesso in lotta tra loro per lo spazio o i commerci da controllare. Senza alcuna organizzazione centrale. Per questo viene da sorridere quando sui principali quotidiani nazionali si sente parlare di "antistato" sia a proposito della mafia siciliana sia per la camorra napoletana. A differenza di quanto avviene in Sicilia, la camorra non si è mai posta come "antistato", e non cerca la politica, non le occorre. Al limite, è la politica a cercare la camorra per ottenere voti in cambio di qualcosa.

Di conseguenza, l'esistenza di più gruppi e la spietata concorrenza tra essi, fanno sì che per ciascun clan lo spazio controllato sia di vitale importanza. E' un assoluto bisogno di occupare spazi, che impone alle organizzazioni che intendono sopravvivere ai concorrenti il ricorso permanente alla initimidazione ed alla violenza. Questo vale per tutti i settori: dal racket, alla droga, al commercio, ai trasporti pesanti, alla collusione con gli amministratori locali, alla produzione in nero di merci di tutti i tipi.
E' proprio la molteplicità dei clan, con la conseguente lotta interna per la sopravvivenza, che sfocia spesso in vere e proprie guerre, che porta fatalmente al surplus di violenza, ad un dominio territoriale che già sa di totalitarismo. Nulla avviene senza che il clan competente sappia ed approvi.
Ma anche per i clan la guerra costa. Costa in termini di armi e munizioni, costa in termini di uomini, costa in termini di fette di territorio che possono venire perse, a favore di un clan rivale. Proprio da questa instabilità, negli anni tra il 2004 ed oggi, in molte zone, soprattutto nell'area a nord di Napoli ed in quella orientale, la camorra ha dovuto procedere a delle "ristrutturazioni" interne, in pratica licenziando migliaia di persone che erano a stipendio dai clan. Migliaia di persone, prima spacciatori o vedette o corrieri o persone che custodivano dietro compenso droga o altro in casa, che ora in mancanza del reddito garantito dai clan hanno ingrossato le file della delinquenza comune. Si sono – per così dire – “messi in proprio” a fare ciò che riescono a fare.

Non è, come si è letto su certa stampa, il "creare nuovo lavoro", che può salvare Napoli. Con l'andamento attuale dell'economia italiana, difficilmente un qualsiasi lavoro "onesto" potrebbe eguagliare quelli che erano (e sono) certi stipendi della camorra, che ad esempio ai suoi pusher dell'area settentrionale paga, come salario iniziale, 400 euro alla settimana (ovviamente esenti da ogni tipo di tassazione) e con incentivi periodici. Senza contare il quanto faccia comodo, all’economia nazionale, la presenza di migliaia di fabbriche, dal tessile all’assemblaggio elettronico, completamente in nero, che forniscono al mercato prodotti a costo più basso.

Dalle merci entranti nel porto, fino agli appalti per le costruzioni, passando per droga, prostituzione, estorsioni, produzione in nero in fabbrichette dove non esiste alcun diritto del lavoro, tutta l'economia, sia quella "ordinaria" che quella sommersa, è sotto il controllo dei clan. E se tutta la stampa, dalla libreria all'edicola, parla oggi con clamore della guerra di Secondigliano tra il clan Di Lauro e quello degli Spagnoli, ci si chiede come mai tutti si guardino bene dal parlare di quel che avviene nel territorio del clan Sarno, a Ponticelli, in quel "triangolo" Barra-Ponticelli-San Giovanni, che sembra uscito dalle cronache nazionali e cittadine. Forse perchè verrebbe allo scoperto la reale dimensione della collusione tra camorra e politica locale e nazionale? Probabilmente sì. Allora, ci si chiede giustamente, se il quadro è questo, a cosa serve l'intervento dell'esercito, se non a limitare "il chiasso" della criminalità napoletana, ad impedire omicidi e spari in strada, senza risolvere realmente alla radice il problema?

Quasi certamente, dopo Angioini, Aragonesi, Borbone, e Savoia, sarebbe solo l'ennesima apparente soluzione della questione napoletana, attraverso una repressione che semplicemente metta a tacere, senza modificare la società napoletana, senza azzerare il totalitarismo camorrista di oggi.
Per questi motivi, una missione dell’esercito non è la soluzione finale alla questione napoletana: la repressione da sola non può risolvere nulla, se non è accompagnata da una serie di interventi tesi all’eliminazione del disastro sociale napoletano, a cominciare da un piano sensato di lotta all’evasione scolastica, fino alla creazione di servizi sul territorio, che non siano realizzati dai clan.
Ma davvero lo si vuole?