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di Tania Careddu

Non si conoscono le cifre esatte. Ma basti sapere che sono ottomila nella Repubblica Democratica del Congo, intorno ai sedici mila in Sud Sudan e circa dieci mila nella Repubblica Centrafricana. Il 40 per cento sono bambine. Minori sotto i diciotto anni, usati come soldati nei conflitti di tutto il mondo. Nello Yemen, in Somalia, in Nigeria e in Siria. Vengono utilizzati dalla forze armate in vari modi: combattenti, cuochi, facchini, messaggeri, spie, informatori, guardie ai posti di blocco o in altri luoghi strategici. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono adoperati come portatori di munizioni o vettovaglie.

Le armi automatiche e leggere hanno reso più facile l’arruolamento dei bambini e il perdurare dei conflitti sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite. Già a dodici anni subiscono l’addestramento militare e la proliferazione di gruppi armati e l’avanzamento militare dell’ISIS, soprattutto in Iraq e in Siria, stanno portando i minori a essere sempre più vulnerabili al reclutamento.

Non chiedono paghe, sono più indottrinabili di un adulto e, certamente, più controllabili. Affrontano il pericolo con maggiore incoscienza, attraversando campi minati e intrufolandosi nei territori nemici. Puniti in modo severo per gli errori, la tentata ribellione può portare agli arresti quando non a esecuzione sommaria.

La maggioranza dei bambini soldato proviene da situazioni economiche o sociali svantaggiate e di lontananza dalle famiglie. Sono spesso orfani, figli di single o rifugiati non accompagnati. Oppure vivono nei campi profughi. Vittime di una grande incertezza, sono alla mercé dei gruppi armati. A volte, volontariamente. Per sopravvivere, per la fame o per la necessità di protezione.

Credendo alla promessa, magari, di “ricevere un’istruzione, di diventare potenti e rispettati”, racconta Wani, un ex bambino soldato, a Intersos. Oppure per rivendicare atrocità commesse contro i propri familiari. E anche di fronte alla possibilità di fuggire, ad alcuni, il “legame distorto” che si è creato con la milizia, rende immobili. Per la paura di perdere quel “senso di appartenenza” conquistato con l’arruolamento.

“Non possiamo aspettare la pace, per aiutare i bambini intrappolati nelle guerre. Dobbiamo investire in interventi concreti per tenerli lontani dalle linee di combattimento, soprattutto attraverso l'istruzione e il sostegno economico. Dobbiamo ricordarci che sono anche queste le situazioni da cui tanti bambini e adolescenti fuggono per cercare protezione in Europa”, afferma il Presidente dell’UNICEF Italia, Giacomo Guerrera. Che prosegue: “Fino a quando queste gravi violazioni continueranno, la comunità internazionale non avrà onorato la sua promessa di porre fine, una volta per tutte, al reclutamento e all'impiego di bambini nei conflitti armati”.

Complessivamente, l’UNICEF, nel 2015, ha assicurato il rilascio di oltre diecimila minori da eserciti regolari o da gruppi armati e ottomila di loro li ha inseriti in un progetto di reintegrazione. Che, nella Repubblica Centrafricana, è portato avanti da Intersos: accolti in un centro minorile, gli ex bambini soldato vengono reinseriti a scuola e nelle comunità, riunificati alle loro famiglie o affidati a famiglie generose. Per deporre le ultime, residue, armi della violenza dell’indifferenza.