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di Tania Careddu

Sebbene sempre più scarso, dequalificato, nero e precario, il lavoro rimane un aspetto vitale per la società. E un riferimento essenziale nella prospettiva degli esseri umani. Primo, per la realizzazione della propria identità, poi per guadagnare e vivere. Un’impresa titanica che per gli italiani, nell’ultimo anno in controtendenza rispetto a quelli precedenti, è possibile portare avanti degnamente solo tornando al buon vecchio ‘posto fisso’. Quello (tanto disprezzato) negli Enti Pubblici, i quali, tuttora delegittimati come istituzioni, sono rivalutati come ottimi sbocchi professionali.

Lo scenario non è tanto diverso da quello del passato (recente): l’attrazione di un lavoro coincide con i suoi livelli di sicurezza, stabilità e continuità e quella flessibilità, tanto amata da imprenditori e politici, perde il suo consenso. Per lasciare ampio spazio a un clima di sfiducia che non risparmia la politica e le scelte politiche in materia di lavoro, ultime quelle relative al Jobs Act.

Salvato in toto solo dall’8 per cento degli italiani, secondo il sondaggio effettuato da Demos&Pi, per il 16 per cento non ha cambiato la situazione del mercato del lavoro, per il 32 per cento avrebbe avuto un effetto addirittura peggiorativo e per un cittadino su tre è troppo prematuro vederne gli esiti.

Ripongono, piuttosto, le loro speranze nell’ipotesi del ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, anche se due italiani su tre pensano che l’abolizione dei voucher finirà per incrementare il lavoro nero mentre le misure di protezione sociale previste dal reddito di inclusione, per disoccupati e famiglie in povertà, appare sconosciuto a quasi la metà della popolazione e la restante è nettamente divisa fra valutazioni positive e negative.

Fortemente insoddisfatta la componente esclusa dal mercato del lavoro, quel tratto generazionale dei giovani adulti nati fra i primi anni ottanta e novanta: i vecchi millenials sono ancora dipendenti dai nuclei famigliari, rinviano il passaggio a una condizione di autonomia e si sentono più precari di tutti, esprimendo il loro disappunto con la scelta di una carriera oltre confine e bocciando, in massa, il referendum costituzionale. Dissentendo, anche, sulle esperienze (per esempio, l’alternanza scuola-lavoro) proposte con la Buona Scuola, ritenendo che abbia peggiorato lo scambio fra i due mondi.

E fra chi il lavoro ce l’ha, crescono le aspettative: circa il 30 per cento scommette su una situazione personale migliore nei prossimi tre anni e per il 55 per cento il proprio lavoro è alquanto soddisfacente anche se, guardando al futuro, l’84 per cento degli abitanti del Belpaese ritiene che le pensioni (dei giovani di cui sopra) saranno troppo risicate per permettere loro di vivere.

E, intanto, il presente restituisce un’immagine deforme rispetto ai numeri e alle statistiche circolanti che promuoverebbero un’idea di ripresa. Delle due, l’una: o l’occupazione non è mai ripartita o sette italiani su dieci non se ne sono accorti.