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Quando la raffigurazione della tragedia è inessenziale alla comprensione del fatto di cronaca raccontato e diventa un mero strumento di accrescimento del pathos, siamo sintonizzati sulla televisione del dolore. Quando questo è protagonista incessante delle storie narrate, incorniciate da musiche malinconiche o ipnotiche, stiamo guardando la sua spettacolarizzazione strumentale.

 

 

Telecamere puntate su immagini di persone in lutto, pianti strazianti per la perdita di una persona cara, primi piani di occhi persi nella disperazione, ripetute domande retoriche, rallenty e replay ad amplificare l’effetto della tragicità. Colpi di scena e rivelazioni choc fanno perdere, però, il contatto con la ricerca della verità e con la pertinenza alla trattazione del tema.

 

Mole di dettagli superflui, sostenuta da dichiarazioni, vere o presunte, di compaesani della vittima, opinioni di personaggi, più o meno, noti, dello spettacolo, sedicenti esperti, infarcite di pregiudizi e luoghi comuni, moralismi, con atteggiamenti sessisti, ne fanno un show che accoglie contenuti e forme spettacolari.

 

Abbandonando la missione informativa a vantaggio dell’intrattenimento, le trasmissioni colorate di queste tinte utilizzano l’effetto patemico, spesso interpretato dalla melodrammatica partecipazione del conduttore: commenti poetici recitati con voce sommessa, stilemi retorici, di sottofondo effetti sonori speciali per attivare la sfera cognitiva sul tema affrontato. Sfidando la continenza formale, le trasmissioni del dolore che riempiono i palinsesti della tv italiana puntano alla narrazione empatica, ricercata nella costruzione dei servizi mandati in onda, al fine di stimolare la condivisione del dolore, sollecitando la sfera emotiva.

 

Ma l’urgenza inquisitoria di riprendere volti di protagonisti, rivelarne la quotidianità, strappare commenti esclusivi, produce due effetti negativi: uno, il rischio tangibile di invadere la riservatezza altrui e danneggiarne la reputazione; due, ledere la sensibilità di chi sta davanti agli schermi, in fascia protetta. E la vocazione inquisitoria di questo genere di programmi apre a quella consueta cattiva pratica, contraria ai principi di corretta rappresentazione di procedimenti giudiziari, che è il processo mediatico: indagine e processi in corso nei tribunali sono discussi, interpretati e valutati da ospiti in studio di ogni sorta; moventi, alibi, testimonianze e profili psicologici sono materia di chiacchiera da salotto televisivo, dove vengono elaborate le più pindariche ipotesi di responsabilità penale sulla base di sensazioni, incrinando il principio sacrosanto della presunzione di innocenza, divise tra innocentiste e colpevoliste in par condicio, di fronte alla giuria del telecomando.

 

Generando una commistione tra processo reale e processo virtuale quando avvocati intervengono nella narrazione a difesa dei propri assistiti, forze dell’ordine presentano prove di reato acquisite e testimoni di processo diventano ospiti fissi delle puntate. Un mix che fa il paio con quello fra informazione e intrattenimento: l’infotainment, genere informativo che all’ambizione di informare somma (o mischia) quella di intrattenere. Il bello (se così si può dire) è che nel ‘trattenere dentro’ la narrazione il pubblico pagante non fa i conti con i soggetti a oggetto dei racconti: certamente, deboli o vulnerabili.

 

I minori, per esempio, da Yara Gambirasio ad Andrea Loris Stivali e Sarah Scazzi di Avetrana, sono state le vittime strumentalizzate per commuovere gli ospiti in studio e il pubblico a casa; quelli vittime di maltrattamento o di reati a sfondo sessuale, dei quali la tv del dolore, spesso, nell’enfasi del racconto si perdona distrazioni come la citazione del vero nome o la trasmissione di immagini, particolarmente forti della violenza subìta, o i cui racconti contengono stereotipi o immagini morbose.

 

Oppure, i minori vittime indirette: figli o fratelli delle vittime o degli indagati, coinvolti in un accanimento mediatico che turba il diritto alla riservatezza. E poi, le donne vittime di reato: “alcune dichiarazioni macabre e voyeristiche di violenze sessuali, come nel caso Pizzocolo, appaiono del tutto fuori luogo”, si legge nel report La televisione del dolore, realizzato dall’Osservatorio di Pavia. Gli unici soggetti vulnerabili salvati dalla spettacolarizzazione, i malati o i portatori di handicap e le persone in condizioni di profondo disagio sociale. Forse, per pietas.