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Quella di Foggia è una strage frutto di un incidente, a sua volta prodotto inevitabile di un condizione di lavoro che non può non essere definita bestiale. Un colpo di sonno dell’autista pare sia stata la causa dello sbandamento del mezzo che portava gli immigrati al lavoro nei campi. E’ il secondo che avviene nel giro di pochi giorni. Certo, a volte un incidente ha l’imponderabile tra le sue cause, ma non in questo caso.

 

In questo caso è lo scotto da pagare per tenere i costi più bassi del minimo, con mezzi strapieni e, per questo, privi di ogni aderenza e controllo sul terreno. Qui ci sono solo i tempi, i ritmi del lavoro nei campi imposti dalla filiera. La sicurezza è una superstizione, il profitto come che sia è l’unica religione.

 

Sono modi, ritmi e orari infami per il cumulo di fatica e per i salari miserabili con cui vengono pagati; sono indegni di un mercato del lavoro decente perché in quella dose enorme di sfruttamento e maltrattamenti, di impotenza, di ricatti, di minacce e di violenza, le braccia che raccolgono e trasportano costituiscono la base fondamentale di una filiera che arricchisce solo le società di distribuzione, mentre a stento offre al contadino un riscontro decente per un lavoro di mesi.

 

 

Infatti, partendo dai 10 centesimi al kilo pagati al contadino, per arrivare ai circa due euro della merce negli scaffali dei supermercati, c’è tutta la distanza che si erge tra la fatica immane del lavoro nei campi ed il costo eccessivo di frutta e ortaggi al dettaglio, se commisurato al costo di produzione. La rete di distribuzione, che rifornisce supermercati e grandi strutture ortofrutticole, stabilisce, nei fatti, valore delle merci e quantità delle stesse che debbono circolare. Alla parte bassa della filiera spetta trovare nell’assenza di sicurezza ed umanità il cuneo dove inserire il suo margine.

 

A tenere basso il valore del lavoro di raccolta ci pensano infatti i caporali, raramente diversi dagli sciacalli, che per lucrare il loro tornaconto propongono salari giornalieri che trasformano il Sud del nostro paese in una cayenna a cielo aperto. Non ci sono potenziali delinquenti, solo esseri umani ridotti in schiavitù. Qui non c’è il fondale ad impaurire, semmai ci sono squali di terra. Un mercanteggiare osceno sulla pelle degli ultimi che non è cominciato con l’era Salvini, ma che nel rigurgito razzista ormai sdoganato e trasformato in costume corrente, trova la sua giustificazione, la rivendicazione dell’orrido in faccia al giusto.

 

In pochi giorni il saldo di vittime di dannati della terra è diventato osceno. Qui non c’è traccia del capitalismo 2. 0, non c’è esternalizzazione, non si proiettano slides, non appare l’innovazione. Non ci sono, insomma, le parole finte di un capitalismo senza capitali. Qui le schiene restano piegate, nei furgoni si sta come bestie.

 

Adesso Di Maio offre condoglianze e annuncia controlli, ma sono parole al vento. Con la minimizzazione strategica, il giustificazionismo cialtrone, il veleno nell’aria che fa sembrare innocui persino i pesticidi, le lingue si mescolano ma i destini no. In provincia di Foggia, dove quel furgone capovolto sembra raccontare la macabra metafora di un destino, chissà come si traduce “pacchia”.